Carlo Bertelli | Vitali=Vita, 01/01/2008

Carlo Bertelli | Vitali=Vita

01/01/2008

Carlo Bertelli | Vitali=Vita

Di Giancarlo Vitali, Giovanni Testori è stato l’araldo. Giorgio Soavi ne è stato il fugace presentatore. Il resto è un profondo silenzio che, in compenso, regala ai visitatori di questa mostra l’emozionante esperienza di una vera scoperta.
Più di una volta è stato scritto che un caso come questo non è più possibile, oggi. Oggi, si dice, l’efficienza del mercato d’arte, la prontezza dei nostri critici, la rapidità con cui corre l’informazione non dovrebbero tenere nascosto nessun talento. I posti sono prenotati, non si effettuano fermate intermedie, non si attendono sorprese. Il secolo corre veloce su binari sicuri.
Vitali non sembra appartenere al secolo di Kn, quello di cui Carlo Belli aveva commentato la stupefacente novità di una pittura liberata dal soggetto e che al posto dei titoli avrebbe elencato le opere come fanno i musicisti con le loro composizioni. Appunto, Kn.
E ora ecco Vitali che ci ricorda che la storia non è mai a senso unico e che dobbiamo essere pronti a improvvise sorprese.
Ecco un pittore che non si lascia incasellare in nessuna tendenza. Che non vuole essere “moderno”, che non vuole neppure corrispondere alle aspettative livellatrici del “buon gusto”.

 

Buon gusto? Friedrich Nietzsche ne rideva apertamente: “il suo gusto, il tuo gusto, il loro gusto non sono il mio gusto”. Occorre avvicinarsi a Vitali senza prevenzioni di moda. Vitali è tutto fuorché un pittore di moda. E come potrebbe, con decenni di attività, non essersi smentito più volte, come sempre la moda smentisce se stessa, ad ogni nuovo incontro? Come si è permesso, in tanti anni, una così inesauribile continuità? Come fa ad essere sublime nei suoi colori sensuosi e raffinati ma essere anche diretto, senza preamboli e vocaboli difficili, essere – diciamolo – popolano?
Vitali vive in un tempo tutto suo. Ha compagni ideali Goya e Velàzquez, Rembrandt e tanta pittura del Seicento lombardo. È popolano come può esserlo il Romanino di Pisogne, il Lotto di Trescore. 
Poiché quella che ora si offre è la prima occasione per conoscere l’insieme del suo lavoro, è interessante sapere che concordemente, con il maestro, con Sara Vitali e Mario Botta, non abbiamo pensato a una scansione per periodi stilistici, di anno in anno, di decennio in decennio, mentre ci è parso giustissimo dividere l’immenso corpus per soggetti. Come se tutti questi dipinti fossero stati pensati, ed eseguiti, in un sol giorno. E ora che Sara ha trasferito i dati sul computer, leggiamo un elenco che assomiglia poco a quello di altri pittori del nostro tempo. Infatti, chi altri potrebbe rientrare in un’elencazione di paragrafi intitolati: pollame, carne, rose e girasoli, quasi una lista di ciò che si trova al mercato?
Sicché sin dalla prima battuta si coglie la particolarità di questo grande solitario. Questa elencazione, che sarebbe stata assolutamente impossibile con altri, lo diventa invece con Vitali perché ogni tema è stato da lui scrutato, esplorato e gustato in profondità, e ogni volta con l’animo puro di chi è disposto a farsi catturare dalla singolarità del soggetto, in un corpo a corpo tra la trasfigurazione pittorica e il dato naturale, o, in certi casi, in un dialogo serrato tra la memoria collettiva di certe situazioni e la loro evocazione in pittura.
Giancarlo Vitali è nato a Bellano, e non credo che abbia mai lasciato il paese e la sua riva se non per brevi periodi. Abita, forse da sempre, in una grande casa ottocentesca posta sul lungolago. Dalle finestre gode di un paesaggio grandioso. Il lago riflette la sua luce cangiante nello studio, dove penetra l’odore d’erbe palustri e acque profonde che si mescola a quello dei colori a olio.
Vitali vive in una splendida famiglia: la moglie, due figlie e il figlio Velasco, tutti attivissimi. Anche se non tutti i figli vivono con lui, questa solida famiglia trasmette sempre un sentimento d’esistenza corale.
Anche questa è una singolarità che si riscontra solo in epoche lontane. Penso, a Brera, alla famiglia intera del Nuvolone in un autoritratto famoso. 
Altra notizia biografica è che il padre di Vitali era pescatore, pescatore come si può essere sui laghi lombardi, dove non si pratica certo la pesca di altura e catturare i pesci è attività metodica e lenta, sempre al cospetto di un paesaggio familiare.
La vista dalla casa sul lungolago ti attrae irresistibilmente. Eppure credo che sia stata il soggetto di una sola opera di Vitali, una raffinata acquaforte dove le briccole bianche spiccano tra i grigi e i neri profondi.
Il suo paesaggio non è fatto di monti e di acque, ma di gente. Gente premuta intorno all’albero della cuccagna, gente che si è alzata dopo il banchetto lasciando al pittore la veduta della tovaglia strapazzata con i resti della cena.
La passeggiata quasi quotidiana di Vitali sembra che fosse un girovagare curioso tra lo studio e la cucina, pronto ad afferrare l’ultimo arrivo dal mercato per immortalarlo su di una tela. In un suo dipinto, i pesci iridescenti non sono stati ancora tolti dal sacchetto di plastica, che li avvolge con trasparenti tentacoli di medusa.
Il paese è per lui fatto non solo di donne e di uomini, ma anche di cani e di gatti. E nel mandriano incontrato per la strada, riconosce, nella giacca stretta, nel cappello bisunto, l’odore del latte e della stalla e colloca una mucca di razza grigia alpina sul cappello dell’uomo. Egli diventa così un’apparizione nel paese rivierasco, un personaggio caduto da un altro mondo, quello degli alpeggi e delle rocce. Ogni quadro di Vitali esprime la meraviglia.
In cucina Vitali deve essere piombato tante volte come un gatto predatore, a sottrarre, alle sapienti manipolazioni culinarie della Signora Vitali, le creature che vi entravano serbando ancora le tracce sanguinose della loro morte violenta.   
Nello studio, le vittime cambiavano natura. Divenivano offerte sacrificali sull’altare della Pittura e lo spasimo della morte violenta doveva riscattare le colpe degli uomini.
Vitali ha incominciato a dipingere quando i pittori che si definivano realisti anteponevano al mestiere una professione di fede nel realismo. Vitali era lontanissimo da loro. Guardava con animo libero e con vivace curiosità le cose, gli animali e gli uomini intorno a sé. Li guardava con simpatia spontanea, senza filtri ideologici. Non si curava di essere classificato dentro qualche corrente. Non dichiarava la modernità come se si trattasse di dare le proprie generalità. Dipingeva ogni giorno con la costanza di un pianista davanti al pianoforte e si confrontava con i grandi del passato, non solo Rembrandt o Goya, ma anche i turgidi pittori e scultori dei Sacri Monti. 
Tra le singolarità del maestro Vitali c’è poi che ha campato, e ha fatto campare la sua famiglia, dipingendo. Non, però, per i galleristi, ma per clienti di poche pretese e poca cultura. Quadri dove tutti gli effetti dovevano essere previsti e meccanici e dove, immagino, mai una ciliegia sarebbe stata senza il riflesso giusto, né una pera senza la sua goccia di rugiada. Sicché tutta la sua vasta produzione non mercantile era quasi segreta, custodita nell’ambito della famiglia, e per lui vissuta come un itinerario purificatore. Non dipingere più per vendere, ma per sé, e dunque cercare la verità. Cercarla con accanimento, attraverso l’instancabile osservazione del soggetto, scrutandone le infinite risorse, entrando in sintonia, come un ladro che voglia addentrarsi in stanze sconosciute.
Non vi è stata nessuna contaminazione tra la sua pittura segreta e la produzione bruta, che immagino accattivante e convenzionale, dei lavori eseguiti per vivere. Il riserbo e il pudore custodiscono una pittura drammatica, volutamente antigraziosa, espressione d’una critica, anche sociale, che esplode in una autentica pittura-pittura come affermazione di libertà.
Di qui l’asprezza e perfino la crudeltà di certe sue immagini.
Eppure questa solitaria è una pittura che comunica. Non al livello convenzionale della clientela, ma ad uno più alto, come se avesse in sé un fine esortativo ed educativo, scoprendo, forse anche nel più distratto, un inconsapevole anelito alla bellezza.
Per Bellano Vitali ha dipinto una vera saga paesana, dove i personaggi si affermano in modi spesso caricaturali, ma sempre guardati con sorridente indulgenza.
Questi racconti d’un intero paese hanno indotto più di un critico a fare il nome di Varlin. E non a caso, poiché per una strana circostanza, divisi dal diaframma di monti che si levano tra i laghi lombardi e la Val Bregaglia, entrambi hanno voluto raccontare storie paesane che sarebbero cadute nella dimenticanza di un costume e di una familiarità perduti, che solo l’arte di questi due maestri eremiti poteva riscattare e trasmettere.
In Val Bregaglia o sulle sponde del Lario, entrambi avvertivano le rapide trasformazioni in corso che spingevano ad un attaccamento nostalgico a ciò che eravamo dieci Natali fa, quindici Pasque fa. 
In realtà, i due pittori sono tra loro molto diversi. Varlin ama colori squillanti sul grigio, segni rapidi che definiscono le figure con l’abile gesto di un maestro di sushi. Giancarlo Vitali è invece intento a guardare con pena e dolore il disegno delle vertebre d’un bue squartato, il raggrumarsi del sangue in risplendenti rubini. Vitali è a favore del tutto pieno, vuole la materia densa che non separa le figure dal fondo ma tutto unifica in un impasto spesso, grumoso, nel quale la luce entra drammaticamente a modellare i volumi e la materia, che il pennello depone sulla tela e si sfaccetta in brillii preziosi.
Nei dipinti di rose (ma li diresti “ritratti” di rose), il colore denso si carica d’una sensualità esplosiva e i lampi di luce, gli improvvisi riflessi, l’accostarsi di neri bituminosi e profondi a colori sontuosi, opulenti, fanno di ogni bouquet che appassisce un dramma, una storia, un paesaggio stregato.
I missoltini screziati hanno riflessi color rame. Appaiono nel buio come rivelati da una lampada notturna. Le acciughe si dispongono nel piatto come costole d’una conchiglia. Emanano riflessi azzurri e verdi. Invece la testa di un luccio ha ancora la ferocia di quando il predatore nuotava sbranando le sue vittime, crudele signore del lago. Non si pensa più a Varlin. Il nome che viene in mente è, se mai, quello di Soutine.
Mai un compiacimento. Bacon guardava gli animali squartati con il pensiero che anche noi, aperti, siamo fatti dentro della stessa materia di un coniglio o d’un pollo. Così Vitali arriva a concepire il trittico del toro squartato, quasi santificando la vittima in questo antico schema dei dipinti d’altare.
Ecco allora la testa staccata del vitello appesa al gancio assumere una maestà eroica e il bue squartato acquisire la nobiltà d’un toro morto sull’arena. Il corpo spiomba per il peso, mentre le zampe anteriori, monche, si propendono verso di noi.
Quando graffia con l’ago la lastra per ottenere stupefacenti acqueforti, Vitali non traduce i suoi dipinti in immagini in bianco e nero. Le sue incisioni hanno l’autorità di un vero maestro della grafica, libero d’inventare i segni e di improvvisare variando i valori, incidendo come se dipingesse, attento al colore della carta e avendo in mente Goya, ma anche Fattori e Signorini. Infatti non teme il confronto con il nostro Ottocento, specialmente con i suoi valori naturalistici e la sua attenzione alla vita quotidiana degli umili.
Il volto nudo in mezzo a una folla mascherata, Giancarlo Vitali entra a Bellano come Cristo entra a Bruxelles in un celebre dipinto di Ensor. Non tralascia nulla di queste feste popolari. Dipinge il tavolo dopo il banchetto di nozze come una strada vista dall’alto che sfugge a perdita d’occhio, ma dove ogni bicchiere lasciato a metà, ogni avanzo in un piatto, o tovagliolo spiegazzato, sono tracce d’una storia. Si potrebbe ricostruire chi è stata l’ultima che ha lasciato nel portacenere il mozzicone di sigaretta orlato di rosso.
Le maschere sono un capitolo che sarebbe difficile inserire nel catalogo, se non fosse per il colore saturo in contrasto con gli elementi grafici con cui è descritta la maschera vera e propria. Ma il dipinto in cui tutte le maschere posano, rapite, compiaciute e lusingate, davanti al pittore incanutito e curvo che le ritrae, ha un sussulto di vera commozione. Tante volte la pittura ha celebrato l’atto del dipingere, ma raramente con tanta beffarda ironia.
Cardi secchi che sembrano ferri e bronzi battuti (ma il centro ha il raffinato colore del piombo), fiori lasciati a marcire nel vaso - e i petali sono scompigliati come capelli dopo un’orgia -, polli a metà spennati - le piume del collo bagnate, le cosce quasi umane da vecchio ricoverato in ospedale - sono gli spettacoli quotidiani della morte. Certo, ognuno di questi soggetti è di per sé interessante come spunto d’una ricerca pittorica. Si tratta infatti di creature immobili, sulle quali il pennello può soffermarsi con esperto virtuosismo.
Nei ritratti il problema è congiungere il tipo all’individuo. Vitali crea una vera antologia dei personaggi di Bellano: il canuto, barbuto e nervoso farmacista, la fruttivendola, il voluminoso e rubizzo macellaio, il sagrestano colto quasi di soppiatto mentre si sfila la tonacella, la donna con la veletta che discute con il suo gatto in un dipinto senza indicazione di luogo, il messo comunale e il tamburino, visti nella loro esistenza di poveracci, malgrado la funzione espletata. Sono ritratti di persone vere e documenti di professioni e mestieri. Sono banchetti con i commensali guardati con l’ironia di Novello, donne sedute come Parche intente a sbollentare e spennare i capponi, qualcuno di questi caduto a terra come in una Deposizione. 
Tocca un vertice il ritratto del ciabattino nella sua bottega.
Questa grande tela è un vero Sacro Monte laico. Un tributo privo di retorica a un amico artigiano, l’esaltazione di un mestiere antico, in una ricerca senza fine di particolari che si scoprono nell’ombra: forme in ferro per le calzature, trincetti, succhielli, vecchi cuoi e martelli. Una pittura d’interno olandese.
Nei ritratti sembra che la deformazione caricaturale aiuti Vitali dal cedere alla commozione e trattenersi dallo scomporre l’immagine, come a lui spesso piace, in frammenti e filamenti di colore. Ma nel ritratto di Testori l’ammirazione e la connivenza con il modello gli consentono di uscire dal nascondiglio e di offrire un autentico ritratto, dove la somma delle zone cromatiche costruisce un volto tormentato da problemi interiori, dove l’azzurro limpido e trasparente degli occhi buca la tela.
In uno slancio di cui Testori era capace, come sa chi l’ha frequentato, il critico, fattosi predicatore, aveva riversato sul pittore le proprie angosce di peccatore credente, unite all’insofferenza verso ciò che chiamano modernità. Non so se fosse giusto. Non dovremmo, penso, caricare Vitali d’un’altra ideologia, quando la sua grande sincerità è stata nel tenersene lontano e abbandonarsi alla gioia della creazione e all’emozione dell’incontro con i suoi soggetti.
Tutto entra nel bagagliaio di Vitali: Goya e le cartoline del pubblico, Rembrandt e Kounellis.
Dico proprio Kounellis, che tra le creature che espone – cavalli vivi, corvi imbalsamati, quarti di bue appesi a un gancio – coglie l’interruzione tra un passato mitopoietico, nel quale gli uomini creavano gli dei e rappresentavano il mondo, e il presente nel quale solo a pochi è permesso non interrompere il lungo filo della pittura, che descrive, registra, ricorda. “L’artista cerca di trovare dovunque il suo Dracula”, ha detto recentemente Kounellis. Vitali lo trova nella cucina di casa sua e nei dissanguati manzi appesi nella macelleria di Bellano. 
Forse qualcuno potrebbe pensare che non necessariamente il sangue debba richiamare il martirio e anzi il sangue possa essere considerato come linfa vitale, vita. E vedere nella pittura di Vitali non la protesta contro un mondo incomprensibilmente paganeggiante e profano, bensì la celebrazione della vita, in tutti i suoi momenti, da quelli ridicoli a quelli, ben altrimenti solenni, in cui sfugge.  

Carlo Bertelli
Giancarlo Vitali - Ritratti di polli, carne, rose e girasoli
Federico Motta editore, 2008