Franco Loi | Due testimoni sotterranei: G. Vitali e A. Boyer, 01/04/1991

Franco Loi | Due testimoni sotterranei: G. Vitali e A. Boyer

01/04/1991

Franco Loi | Due testimoni sotterranei: G. Vitali e A. Boyer
  1. Ho pensato spesso che un giorno bisognerà scrivere la storia sotterranea di questi nostri anni. Anche la storia della nostra civiltà è retta da chi non compare, da chi fatica e soffre: è sempre storia degli sconfitti, degli umili, dei dimenticati, dei generosi, dei poveri. Dietro il carico storico di tutto ciò che è violenza e dolore, potere e vanità, sopraffazione e sfruttamento, c'è il volto ignoto «dei facitori della storia», delle moltitudini che lavorano, delle coscienze respinte, della cultura disconosciuta, della sapienza occulta. Tuttavia, in questi ultimi anni la violenza è entrata silenziosamente nelle coscienze, è diventata prima ideologia e poi costume. Il principio della quantità - massa, denaro, possesso materiale - ha generato ritorni di barbarie, sacrifici umani - penso anche ai milioni di bambini che ogni giorno muoiono di fame a permettere lo spreco e le vergogne della «civiltà occidentale» -, e rammento i lager, i gulag, i bombardamenti sulle città inermi, la droga che uccide. La libertà oggi non è soltanto negata dai poteri, è rifiutata dai servi, secondo il principio del pane. Così la cultura si è venduta, ha ridotto la parola a chiacchiera e ha sepolto l'arte nell'appiattimento dell'industria. Forse la gente non si rende abbastanza conto che il rifiuto dell'arte è rifiuto della creatività individuale, riduzione dei popoli a massa. L'antico sogno di Caino si sta avverando: la tecnica sta distruggendo la natura. Mai una frattura così profonda si è prodotta tra uomo e uomo, tra i popoli e la cultura, tra i padroni e i servi. Circola il falso - false ideologie e false culture al servizio dei potenti. La parola cultura ha due significati originari: da cultus, culto, venerazione, e colere, coltivare. Venerazione dei principii, divini o naturali che siano; coltivazione dell'uomo. Il coltivare l'uomo, far crescere la coscienza individuale e combattere l'ingiustizia sociale è cultura nel tempo in cui opera: è cultura degli uomini vivi, creatività in atto, presenza delle coscienze nella storia. Oggi assistiamo invece all'idolatria della morte, alla glorificazione del museo e dei cimiteri. I potenti si sono impadroniti della morte e l'hanno diffusa come un'epidemia in tutta la società.
  2. Mi torna alla memoria un’immagine proposta da Boris Pasternak per i funerali di Leone Tolstoj: «Cantando Aeternam memoria, studenti e giovani trasportarono la bara attraverso il piazzale e il giardino della stazione fino al treno, e la deposero in un carro merci. La folla sulla banchina, si scoprì il capo, e mentre nuovamente si levava il canto, il treno si mosse lentamente in direzione di Tula». È un momento significativo: la gente si stringe attorno ad uno scrittore, gli uomini sembrano sentire il dolore per la cultura che muore. E fu davvero così, se pensiamo all'orrore e al terrore che pochi anni dopo avrebbero respinto la cultura a ritroso nella storia, al mutamento decisivo che segnò tutta l'intellighenzja russa e però snaturò anche la cultura europea: dalla lotta per i diritti degli uomini al servilismo verso il potere. Tanto più importante quella morte, se l'accostiamo a quella dei Dostoevskij, dei Cechov, dei Gogol, al tramonto di una stagione che aveva riproposto all'attenzione dei popoli la funzione della cultura. Non traggano in inganno i dubbi dello stesso Tolstoj sull'arte e sulla letteratura; venivano posti da una coscienza più alta, a confronto con la santità, non con il compromesso o l'edonismo. Venivano semmai denunciati i limiti della scrittura, non negata la sua necessità. E a questo proposito O. Paz osserva: «Rousseau fu il primo ad affermare che in principio ci fu una sorta di patto verbale tra gli uomini. Quel patto - figlio del bisogno e delle passioni, non della ragione né della libertà - è il precedente e la causa necessaria del patto sociale. Il linguaggio fonda la società e, a sua volta, il linguaggio è una società». Dunque, non a caso, la società della massificazione e della violenza tende ad escludere il linguaggio dalle coscienze dei popoli, a codificare la morte della poesia e dell'arte, a fare della cultura una servitù. Sembrano profetiche le parole di Musil a Parigi nel 1935: «Le democrazie accordano alla cultura un buon margine di libertà. Ma in seguito ne accordano uno altrettanto buono ai suoi depredatori». Nel momento in cui lo scrittore sosteneva «l'extraterritorialità dell'intellettuale, formula giusta in quest'epoca di sangue, di terra, di razza, di massa, di capi e di patrie», metteva in guardia «i servitori della cultura dall'identificarsi completamente con uno stato momentaneo della loro cultura nazionale».
  3. Dunque la cultura ha una sua patria, libera da ogni altra patria o ideologia o utopia o appartenenza di gruppo o di classe, e questa patria, non sancita né riconosciuta dai poteri, muove all'interno delle coscienze e degli spiriti liberi, transita, anche quando sembra emergere, nei sotterranei della storia. Perciò non mi ha stupito, anche se mi ha confortato, l'incontro che lo stampatore Linati mi ha procurato con Giancarlo Vitali. Quest'artista, figlio di pescatori, che vive proprio su «quel ramo del lago», sotto quei monti a ridosso delle acque che sembrano disegnare ancora il profilo di una lontana scrittura lombarda, quella di Fermo e Lucia, ha per anni accumulato memorie, immagini di «piccole cose», di modeste vite, di figure appena visibili nella trama di una società rumorosa e distratta come la nostra. Ha ragione Testori, quando, «illustrando per verba» la propria emozione, rifiuta il concetto del «moderno» e si dice «tentato di rivedere in toto la storia dell'arte moderna». Già molti anni fa mi parve utile rammentare quanto Balzac scrisse al giovane Stendhal a proposito di provincia e letteratura: «È nella provincia che si preparano le grandi forze, anche se è nelle città che si consolidano», volendo forse dire che la città fornisce il terreno su cui il seme della provincia può germogliare. Se il «moderno» rischia di essere troppo ideologico per essere attuale, se la città viene distratta dal chiacchierare degli intelletti asserviti al potere, se l'astrazione, sia pure motivata dalle idee, nega le forme all'uomo della metropoli, la provincia può ancora favorire l'osservazione, l'approccio diretto con gli uomini e con le cose, il silenzio per la riflessione, il corpo naturale delle realtà. Certo, non sono e non voglio parere un cultore del provincialismo. Ma che cosa rende periferico un luogo, le idee, gli uomini? L'esilio può essere a Roma o Milano, come a Bellano. Dove c'è la forza, dove passa lo spirito e si fa ampia la coscienza, dove l'emozione si riflette nella sapienza, e l'uomo non si nega alla conoscenza e alle esperienze, nel cuore e nel pensiero dell'uomo attento all'informazione e alle idee, là dove c'è la cultura, insomma, là è sconfitta la provincia, tutto diviene centro e città.
  4. Giancarlo Vitali mi ha fatto conoscere, in un giorno ricco di visioni e di dialoghi, un suo album, personale, come quello del Tessa, frequentatore assiduo dell'altra sponda del lago, un suo diario pittorico. E non voglio far pensare a ritorni figurativi, nell'arbitraria antinomia con l'astrazione. Dal figurativo l'artista non si è mai allontanato, fedele a quella lezione, che Vitali non ha conosciuto ma ha fatto propria per istinto d'artista, un concetto che Eugenio Tomiolo riassunse in una sua ironica formula: «La mela di Cézanne, prima di essere una sfera, è una mela», volendo significare che la natura realizza una forma e non apparenze geometriche o matematiche. Il problema è avere il coraggio d'intendere geometrie e numeri e però affrontare il corpo della cosa. Giancarlo Vitali, certo, non si è posto questi problemi, non ha voluto porsi con l'intelletto davanti al suo bisogno creativo. Come ogni artista e poeta autentici ha semplicemente immerso le proprie sapienze e le osservazioni nell'atto antico e mai esauriente dell'arte. Così siamo al cospetto di figurazioni folgoranti di luce, di corpi testimoni di una realtà più ampia delle loro cronache, forme ricche, nella miseria e precarietà delle biografie che sottendono, di allusioni e spessori, di forze ed energie che le trascendono, e forse trascendono l'artista stesso. Vitali dimostra in ogni tela, in ogni disegno, in ogni immagine il coraggio delle proprie padronanze tecniche l'azzardo della poesia. C'è un verso di Delio Tessa, ancora lui, che sembra una dichiarazione di poetica: «Dilla... reddilla / quella parola lì / e poeu tornela a dì / e allora... te comincet / a s'ciariss... a capì.../ bolla d'aria nell'aria / parolla solitaria.../ ferma, che se colora...». Così, forse, Vitali ha contemplato le forme e i colori, forse anche le figure dei suoi paesi, sino all'apparizione della parola d'arte.
  5. Dunque, la ripetizione di un rito, l'attenzione a ciò che si vede, all'immagine, ai segni dell'esperienza e dell'emozione interiore, ma anche a ciò che non si vede, ai moti appena percettibili, alle spinte inconsce, ai segnali nascosti della storia, cioè all'interno dell'aria in cui l'immagine acquisisce lontananze e profondità, connessioni e distinzioni, quell'indicibile senso per cui dai fiati e dalle luci di un luogo o di un uomo o delle cose prendono corpo le forme. Qui il paradosso non è cercato soltanto nel linguaggio, come si è premurata di fare l'avanguardia. Tutti i linguaggi servono al dire. Il paradosso è nel divario tra quella luce e un'atmosfera che sembra ritagliare piccole figure marginali, tra quell'energia espressiva e l'attonita stupefacente proposta dei corpi. Sembra che tutti, personaggi e cose e luoghi, abbiano la malizia di irridere la storia: c'è un'allegra irriverenza nella loro presenza. Ricordo le statiche sequenze di Anghelopulos, La Recita, il senso di un tempo immobile, di un imporsi delle figure allo spazio, di una insolenza degli uomini rispetto agli eventi. Soltanto che in Vitali c'è una sorta di allegrezza o di cordiale proposta. Forse si tratta ancora dell'«allegrezza» di cui parla Leopardi - un'energia che attraversa anche le cose degne di pietà o tinte di dolore - certo dell'artista e del suo fare poesia, ma che qui trascorre nelle figurazioni e in tutta l'atmosfera del quadro.
  6. Sono interessanti anche le titolazioni: nomi di persone e di cose, una specie di «cronaca dei sentimenti dei luoghi», una memoria catastale in cui la vita dell’artista s'intreccia alla vita di un paese e si allarga alla contemporaneità. Non sono un critico d'arte, e non mi pare nemmeno opportuno parlare di questi piccoli capolavori. Ancora cito Testori: «Vitali ha eseguito una tale serie d'après che basterebbe da sola a far mostra o libro». Potrei anche citare l'espressionismo - ancora qualcosa che riguarda Tessa - o la tradizione lombarda. Ma il suo linguaggio non va descritto e sappiamo che un poeta trascorre attraverso il linguaggio. Assicuro tuttavia che l'impressione che si prova davanti a questi quadri ha pochi riscontri nell'arte d'oggi. Vitali sembra riprendere il discorso dalla controriforma lombarda, e mi torna opportuno annotare qui un'osservazione di Guy Scarpetta a proposito del tardo Barocco, quello della controriforma appunto: «Il Barocco si lascia percepire ogni volta che il movimento si oppone all'ordine, la metamorfosi alla stabilità, l'eccesso alla norma, l'ornamento alla funzione [...] Non è illegittimo sostenere che lo stile barocco è nato in un certo momento (prima del XVII secolo non c'è Barocco) ma anche che esiste uno spazio (quello che aveva giusto percepito Malraux) in cui Gongora può dialogare con Lezama Lima, in cui Monteverdi è contemporaneo di Gadda [Scarpetta non conosce Tessa] e Rubens di Picasso». Anche se io osservo di straforo che ritengo Picasso più un neoclassico che un barocco.
  7. Una storia quindi tutta da ripercorrere, «poiché, per l'appunto, si tratta di uscire dall'era delle rotture», come scrive ancora Scarpetta, «in un'epoca in cui forse cominciamo anche a intravedere che i dogmi cattolici possono funzionare, paradossalmente, come un'istanza di resistenza al dogmatismo (per esempio a quello delle grandi religioni laiche, quello della Storia, del Progresso, dell'Idea, della Specie). Quando Dante definisce la Provvidenza non come un determinismo superiore, ma come ciò che spezza i determinismi storici e biologici e impedisce ai bambini di essere la copia dei loro genitori, è chiaro che la posta in gioco (per poco che si recepisca ciò con uno sguardo attuale) è proprio la concezione di un soggetto dipendente da un ordine simbolico che, per definizione, gli sfugge; ma che lo determina, col fatto stesso che gli sfugge, nella sua singolarità, nella sua irriducibilità». Un mondo nuovo, una storia diversa, una cultura da rivisitare. E l'arte e la poesia, come sempre, hanno il compito di riattraversare le forme e il pensiero, aprire diverse prospettive all'uomo e al mondo, dare con l'intuizione i segni di una rinnovata visione.
  8. Ho già scritto altrove a lungo attorno all'arte di Gianfranco Ferroni, e non è qui il caso di riaprire un discorso sulla sua arte. Ma, parlando di Vitali, non ho accennato a quella che, con una non proprio efficace espressione, si dice la sua «arte grafica». Ebbene, se Ferroni può, per vocazione e affinità, richiamarsi a Morandi, Vitali appartiene invece al «modo» di Luigi Bartolini; alla base del suo operare c'è più una poetica che una ricerca tecnica. Sono, naturalmente, distinzioni d'orientamento, e non hanno implicazioni di qualità poetica o tecnica, ma è palese che Bartolini e Vitali danno sempre l'impressione di raccontare attraverso l'immagine, mentre Morandi e Ferroni raccontano l'immagine, e quindi se i primi due ripropongono il tema dello «stare con gli altri», questi ultimi trovano, con la solitudine, la possibilità dell'altro «nella ricerca di sé». Parlando delle acqueforti di Ferroni ho più volte accennato alla «luce che risplende nell'ombra», dovendo usare uguale metafora per Vitali direi «la luce che risplende nella luce», tanto questo artista sa esprimere dal segno la luminosità degli esseri e delle cose.

Franco Loi
Due testimoni sotterranei: G. Vitali e A.Boyer
"Grafica d'Arte", aprile-giugno 1991