Gianni Brera | Il mio paese del lago, 12/02/1983

Gianni Brera | Il mio paese del lago

12/02/1983

Gianni Brera | Il mio paese del lago

Ho innanzi a me le acqueforti, le cere molli e le acquetinte che Giancarlo Vitali da Bellano ha prodotto per Oreste Bellinzona, mio singolare paìs di Hiberna Castra.
I disegni m’intrigano di acchito per la singolare disinvoltura con cui l’artista ha saputo cavarli dal reale. Mentre mi affiora questa certezza (il pensiero granisce dapprima timido e poi s’infigge nella corteccia come per violentarla secondo logica), una voce curiosa mi sussurra: «Porque la vida es sueño - y los sueños sueño son».


Così evocato, il severo drammaturgo spagnolo sembra volersi esimere con immotivata cupezza. Capita a chiunque di sentirsi banale quando certe immagini gli rampollano su dall’inconscio. Io sono subito indotto a detestare il mio contagio, che mi è facile confondere con una sorta di lebbra letteraria. Poi, inaspettato, mi soccorre il poeta, così tormentosamente espresso dal suo disegno.
Che ha fatto in realtà questo Vitali, se non ribellarsi alle sue stesse indulgenze oniriche? Indotto finalmente a raccontarsi, per intimo pudore ha evitato i volti di famiglia, le fisionomie alle quali ha dato vita giorno per giorno dopo averle concepite in amore, quasi sdoppiando se stesso. Il costume romantico avrebbe suggerito il contrario. Ma già lo minacciava il pericolo di veder tutto trasfigurato dal sogno, che è forse un bislacco inseguirsi di immagini pullulate dall’Es più viscerale. E lui, Vitali, sente di aver profonde radici nella rena che il lago lambisce da millenni. Respinge anche la sola ipotesi di deformare i ricordi bio-storici del suo sangue. Allora chiude gli occhi e scompaiono i colori, per tanti anni aggrumati in tavolozza, poi dilatati e campiti sulla tela La memoria si affida alla punta che incide la cera e prepara il metallo al morso dell’acido.
Vediamo come nasco alla vita di ogni giorno, come «avverto» il sole fuori dalle incerte nebbie del sogno notturno. Un pericolo incombe: deformare le cose e dunque mentire a me stesso e alle cose che informano la mia vita. Spalanco la finestra del mio studio lasciandolo invadere da una luce di puntuale violenza cromatica: e necessariamente colgo i soli contorni, i profili. Il lago è un infinito che la mia modestia delimita di moli e di attracchi familiari. Un vaporetto esala il suo asfitticco barrito ma lo nego al pontile di legno il discutibile privilegio di recar gente trafelata all’imbarco. Perché mi si veda ben ancorato in terra, mi affido a due comignoli in primo piano. Le tegole sono molte, qua e là ricoperte di muschio leggero. Dalla finestra mi ritraggo insoddisfatto per quanto di nuovo non ho saputo vedere nell’antico.
Subito dopo esco per la via, sorprendo tre vecchie vissute di sussurri e sospiri. I loro volti rugosi raccontano la storia, che è sempre stata matrigna. Poiché le vecchie filano, possono agevolmente trasfigurarsi in Parche. Il nostro destino è insondabile come i sentimenti espressi dalle loro smorfie ambigue o maligne. Entriamo allora in casa del poeta-pittore, cogliendone uno spaccato zeppo di simboli per nulla misteriosi. Gli occhi del gatto sono ironiche spie sul nostro vivere quotidiano. C’è anche un imbuto rovesciato, una bilancia dietro la quale si cela una caffettiera napoletana. Simbologia domestica in apparenza solo bonaria.
Accanto a questo insieme, il particolare dei missoltini, invenzione che i padri hanno dedicato alla fame. Sono tragici e arguti, folgorati dal sale che non riesce a cancellarne gli occhi. Le code sono veri timoni cosmici. Con queste umili astronavi puoi sopravvivere, che è forse il miracolo più altero.
I missoltini sono monumenti nell’agone, sopravvivenza lacuale dell’aringa. E come gli agoni si prendono con le reti, la cronaca si completa di fatti e di fisionomie tenacemente votate al lavoro. L’ovvia necessità di guei gesti esclude ogni retorica. Ma se gradite un accenno al tragico, ecco il mio lago che spasima sotto l’insulto improvviso del «menasin», espresso da riva contraria. L’ebete incredulità del vecchio conforta la nostra meraviglia: ma io ci trovo l’involontaria ferocia di certe caricature leonardiane.
Di qui arrivo allo spasso d’un carnevale vissuto da maschere grottesche. E finalmente chiudo con uno scorcio di panorama in cui le case antiche e arcigne paiono sfidare il mondo. Comignoli come alabarde s’immergono nel cielo tempestoso. Una scaletta contorta si aggrappa alla prima facciata. Per quei gradini salgo al mio caldo rifugio di secoli. Qui hanno vissuto i celti, qui i misteriosi orobici, qui i primi uomini, non appena l’immane ghiacciaio si è varato verso la pianura.
Così, a ritroso, ho seguito il cammino del poeta. Egli ha raccontato una storia precisa e perciò tutta inventata. La fantasia l’ha aiutato per una volta a non tradire. Quanto ho dichiarato io stesso di vedere è il minimo.Né la pretendo a sussiegoso guardone di mostri. La poesia è un raggio sottile che illumina il mondo. Sotto la sua luce le minime cose grandeggiano per prodigio. Sia dunque grazie a te, Giancarlo Vitali da Bellano; anche a te Oreste Bellinzona del mio paese.