22/08/1984
Non dovremo andar molto lontano, questa volta, per cavar dalle bende di quella strana, interessatamente (e, forse, turpemente) coltivata dea, che è la dimenticanza; per cavar fuori e buttar poi lì, sul tavolo della luce, l'ignoto. Come lo spirito, anche il genio anzi, questa seconda volta, il genio della pittura-pittura, soffia dove soffia; e buonanotte a tutte le presunzioni che vorrebbero, di lustro in lustro, disegnare la «mappa» che, per un determinato tempo, dovrebbe comporre la veridica storia dell'arte!
Rovesciamo gli occhi, velati da orride cataratte; ovvero, volgiamoli indietro. Le «mappe» non rispondono che parzialmente al veridico «vero» dell'arte, della poesia e, pel nostro specifico caso, della pittura-pittura (che più pittura di così davvero non potrebbe pensarsi); colpi e vampe di luce, memorabili come grani d'un rosario infuocato dalla bellezza e, nella bellezza, dalla potenza di vita; a farsi sberleffe delle summentovate presunzioni; le quali, naturalmente, saran le più tarde a riconoscere e ad ammettere; anche perché non amano molto volger indietro testa ed occhi, e prender atto dei propri, clamorosi errori.
Cosi, continuano; cosi procedono nelle costruzioni delle susseguenti, insensatissime «mappe». Non da lontano, dunque, viene il protagonista della nostra seconda puntata. Da prossimità, anzi estreme; nei termini della geografica geografia; e nei termini di quell'altra geografia, che è la storia d'ogni umana patria; e, in essa, d'ogni umana ragione. Il pensiero va; non sempre l'ali son dorate; ma talvolta, com'è il nostro caso, sì; e se la colomba, nel viaggio, verrà ferita, si macchierà, il pensiero, di sangue (un colore che il nostro protagonista predilige, perché gli diventa, tra mano, superbo ingorgo di viole, di rododendri e rubini).
Siamo, ecco, sulla riva di «quel» ramo. Così possiamo chieder soccorso alla voce sgranata, epperò fermamente docente e rammentante, di Franco Parenti mentre, nella «prova» degli «sposi promessi», insegna a pronunciarlo il «quel» di «quel ramo», e così, piano, piano, disegna, di lui, il ramo, la colma calma, frastagliatissima sequenza; fino ad arrivare là, sul fondo; poco prima che curvi verso Piona; quanto dire, a Bellano; borgo che, di fatti, uno dei personaggi della «prova» pronuncia. Negare che questo avviene per rispetto alla storia della peste così come il gran Manzoni ebbe a raccontarcela, ma altresì per rispetto, affetto, ammirata attrazione e attrattissimo amore per la pittura-pittura di chi, in quel borgo, è nato, v'abita e lavora?
Vitali Giancarlo, classe 1929; scritto così, come nei registri delle nascite. Sul nome, lecchesissimo, è planato una sorta di meticciato bergamasco; per via materna;almeno, mi credo. Ma, ciò che più conta, su e nel nome sta chiuso un rebus; o un'umile, araldica «impresa»; rebus talmente chiaro che, forse, rebus non è più, bensì prova della forza di vita, della «vitalità», appunto; forza del «nonostante tutto» e del «malgrado tutto», che ebbe a far da nerbo (e nervo) alla dilui non facile esistenza; anzi, difficilissima.
Nacque, Vitali, figlio di pescatori; talmente che, ragazzo, mentre il «bellanasco» calava giù a rinfrescar la calura agostana. Già, il «bellanasco»! Sapete che sia in sé, e pel lago d'intorno a Bellano, tale vento? Da dove prenda nome, dato che i1 borgo l'abbiam rammentato, è fin troppo facile scoprire; ma, conoscerlo! E, poi, goderlo! Come, capitò a noi, là, nello studio dell'ignoto genio, o servo servilissimo della dea pittura, mentre, con la stessa velocità con cui i1 padre aveva mostrato persici e agoni.. sciorinava, davanti ai nostri occhi increduli, esaltati, ed esterrefatti, i fasti, eccò, sì, i fasti, d'una pittura sontuosa e trionfante di sughi, succhi, rapine cromatiche, carnali ascendenze e debordante, sempre, di fiumi di rose, di peonie e di sangue; una pittura della quale, fin lì, non avevamo avuto notizia che tramite una fotografia.
Può, una fotografia a colori, determinare tanta esigenza, e ansia, di conoscere l'autore dell'opera che v'è riprodotta? Non solo può; deve. A noi, e non solamente per quanto concerne la pittura moderna, è capitato più volte. Pensiamo, infatti, che la pittura, dai suoi fasti (insistiamo, a bella posta, su quest'unica ,e trionfante parola), chiami, comunque e sempre, in modi ora diretti, ora indiretti, quanti siano suoi veri adepti; adozione che sconfina, anzi, si getta e finisce in amore; o, per far rima come il pasticcio erotico-critico che essa si merita, adozione che finisce in passione. Poi, una volta dentro, tornar indietro! A meno che, per l'appunto, non si sia «mappisti» o «mappatori»! Ma, noi, della capacità di precostituire l'urbanistica dell'arte, non siamo minimamente dotati. Così restiamo all'adozione; e, ogni volta, finiamo nella passione.
Le cautele ci si distruggono fra mano. Ma.,ecco, i fasti della pittura-pittura trapassano la carta delle fotografie; la vincono e la schiacciano come folgori o schegge che, dal sole, o da chissà mai quali occhi terrestri e insieme celesti, svelano le inaudite verità che, propria sulla carta, la riproduzione osava appena accennare. Riproduceva, quella fotografia, che una pura casualità ci permise d'aver tra mano, un coniglio; morto; anzi, scuoiato; deposto, ecco, su un lenzuolo, come una vittima; feto assassinato dall'inneggiatissima libertà abortista d'oggìdi (il richiamo, sacrificale e insieme truce, fu immediato). ,
La certezza che fosse pittura da toccare, d'amare, e da cui lasciarsi toccare, abbracciare, amare, ci afferrò subito. Restammo così incerti se passar sopra al piccolo, straziato cadavere le mani; ovvero deporvi un velo, come avremmo fatto sul corpo esanime d'un bambino. Ci dicemmo, subito, che bisognava vederlo, quel sacro lacerto, quel sacro, sanguinante brano di sacra, sanguinante pittura; e conoscerne, insieme, l'ignoto autore; e così cavarlo, in qualche modo, dal buio; dal silenzio; dal nulla.
Ci inseguimmo,Vitali e io, come in un'inestricabile mosca-cieca. Finché l'inseguimento si risolse; tramite il figlio; pittore anch'esso; massimamente, anzi, disegnatore (e di quali sottili, snervati incanti gìà ebbi a dire e più dovrò dire e raccontare presto). Fummo, infine, lì; nel già citato studio; mentre scendeva, a rinfrescare l'estiva calura, lui, il «bellanasco». Chiedemmo, a Vitali, la gentilezza di mostrarci subito il coniglio; anzi, il sacro feto; il sacro, gemente (ancorché morto) brandello; ben più umano,che animale. Fummo accontentati.
Allora, ciò che la fotografia ci aveva lasciato leggere e presagire, s’accese, gorgogliò, come se, estratta dal frigidaire, la bestia fiorisse tutta del sangue che gli alti, gradi avevan impietrito e raggelato. Sangue, sì; o, più che sangue, rubini; e, tra i rubini, le viole; soprattutto là dove la tumefazione della martoriata creatura aveva passato il limite; o dove più le mani assassine avevano infierito... Il testo aumentava e accelerava quanto, dalla fotografia ci eravamo immaginati; anzi, lo glorificava.
Ci riuscì impossibile abbreviar la sosta. Era dai tempi dei primi, diretti e drammatici incontri con gli animali squartati di Soutine che non avvertivamo più una così estrema vocazione della pittura a magnificare se stessa proprio nell'atto in cui si flagellava, in cui s'introduceva, in cui affogava o annaspava nell'ematico pantano. Con questa differenza, però: che mentre, in Soutine, la fiagellazione necessitava di far passare la realtà entro il cunicolo d'un accanimento deformativo, seppur poi neo-formativo, in Vitali, tale fiagellazione, andava a coincidere, e a coincidere millimetralmente, tramite una sorta d'attonita e clamante forza obbiettiva, con la realtà stessa. Insomma, al coniglio di Vitali era abbisognato solo esser guardato e amato da lui, Vitali; solo era abbisognato di venir collocato dal pittore sull'altare dove, da sempre, vengon posti i martiri, i vinti, gli assassinati e i deietti, perché gli ori e le pietre della pittura, magnificando il piccolo corpo, magnificassero il loro trionfo; anzi, trionfalmente lo celebrassero. Dopo i conigli (scoprimmo, infatti, che si trattava di una serie), fu la volta d'altri animali squartati; o di loro, audaci, imminentissimi frammenti. Ne colava il sangue.
Passavano i quadri uno dietro l'altro; una dietro l'altra, passavano le meraviglie; trofei d'ortensie e di rose; poi, la serie, memorabile, dei ritratti; gente di lì, della riva, o dell'immediato retro terra, ma che la suprema, sconfinata bellezza e atemporalità della pittura, induceva a volare verso chissà quali luoghi e destini, come la «vecchia dei gatti», che pareva scendere dai più stregati angoli dell' «Hyde Park» londinese.
Intanto la nostra critica bisognava tentare di datare; ma gli anni, ora ci parevano troppo lontani, ora troppo prossimi, ora troppo futuri. La verità era che la pittura di Vitali, fissata come si mostrava sul presente, sembrava, nel suo glorificare se stessa, abolire tutte le questioni di forma che l'avevan preceduta; e quello che, con ogni probabilità, la seguiranno; per stigmatizzarsi, mobile della mobilità propria alle meraviglie, nel tempo della gloria.
E dire che quei fasti erano isole che lei, la dea pittura, aveva offerto a Vitali, mentre per vivere lui era costretto a venderla, la dea, e a farsi esecutore forzato d'una serie infinita di dipinti eseguiti su comanda; fino a dieci, quindici al giorno; per il pane e companatico suo; e della famiglia. Ma, la pittura, quando sa che la sua svendita accade per simile, insormontabile ragione, tiene nascosto, dentro il suo manto, un codice che è, insieme, di resarcimento e di vendetta. Volevano gli oscuri mercanteggiatori della profanazione strozzare la mia gloria nella tua seriale, costretta produzione? Ed ecco, io, pittura, mostro a loro, e agli altri, i ciechi e sordi «mappisti» o «mappatori» di che «lagrime grondi e di che sangue», e di quali, anche, irraggiungibili bellezze, l'arte di chi, apparentemente tradendomi, mi fu, come te, Vitali Giancarlo, devoto; anzi, devotissimo...
Così, alla nefasta serialità, la pittura, rispose, con l'opere che a Vitali veniva concesso di dipingere nei momenti.di pausa e di pace; rispose tramite il suo stesso, altissimo fasto; anzi, i suoi stessi, altissimi fasti; scritti così, al plurale; come meritano i capi d'opera su cui scivolò, e scivola tuttora, quand'è sera, il «bellanasco»; e che, un giorno o l'altro, ci sarà caro dovere, e onore, far conoscere e così decifrare ben oltre quanto, nel presente avviso, non ci sia riuscito di fare; ferma, o eternamente mobile, restandone la pittorica gloria; e l'incondita, pittorica meraviglia; cui potremmo dare persino una titolazione, proprio come usava farsi per gli antichi trattati: dei tempi e dei modi traverso i quali la pittura vendica i suoi veri servi e i suo veri amanti.
Giovanni Testori
Il Corriere della Sera
22 agosto 1984