Marco Vallora | "Siamo solo comparse". Ma ci sono anche i maestri, 01/01/1996

Marco Vallora | "Siamo solo comparse". Ma ci sono anche i maestri

01/01/1996

Marco Vallora | "Siamo solo comparse". Ma ci sono anche i maestri

La solita premessa.

Temo ormai di ripetermi. Ma è di fronte a pittori come Giancarlo Vitali che il Povero Critico avverte diventare più che precaria e presuntuosa, pretestuosa, vana la propria carriera - per non dire il tormentato mestiere - di 'parlatore' dell'arte. Come se con un pretenzioso megafono si dovesse rianimare la pelle addormentata dei quadri.
Ma i grandi pittori hanno davvero bisogno della 'voce' di chi li sostenga e supporti? Non è più nobile un rapito, rispettoso, decoroso silenzio?


Come ha ragione il geniale Valéry, disegnatore e incisore lui stesso - e non dilettante -, quando ferisce le nostre velleità locutorie, scrivendo: "Si è detto tutto su Daumier, tutto quello che si poteva dire... Ma sostenuto questo, deve sorgere la sensazione che nulla sia stato detto e che non c'è nulla da dire. Un'opera d'arte che non ci renda muti è di scarso valore: essa è commensurabile con le parole. Ne risulta che ciò che si scrive sull'arte non può altro che lusingarci di saper restituire, meglio, di preparare quel silenzio di stupore rapito, di charme che non necessita di parole".
Così verrebbe istintivo di chiudere immediatamente il dossier del caso Vitali, domandare venia al pubblico sopraggiunto e speranzoso, che ora s'accinge a gettare uno sguardo tra queste righe, levarsi un poco teatralmente dal banco dell'arringa e lasciare che siano i quadri stessi del lacustre maestro (il Bellanasco, lo chiamava Testori, ad evocare un vento disceso dai monti), abbandonar soli i quadri, a perorare, zitti e burrascosi, la propria già vinta battaglia.
Vero, ci sono al contrario pittori minori, 'relativi' - intriganti, magari - ma incompiuti, irrisolti che possono beneficiare comunque del vinavil della parola critica, che tenga insieme le loro membra sparse, incerte, e colmi quelle stesse lacune costituzionali: artisti gratificati da un viatico, essudante, di parole.
Altri, che vivono benissimo nel silenzio dell'ammirazione, nella tautologia orgogliosa del loro impatto: e dunque è vano disturbarli con la cannetta petulante e fastidiosa del 'discorso critico', ingannevolmente rabdomantico.
Di un grande artista non si scopre nulla, anche se si continua a riscoprirlo, perennemente.
Non dirò nulla, come Giulio Paolini intitola un suo intervento, per altro illuminante su un suo riconosciuto maestro: "Non vi dirò nulla su Lucio Fontana. Sono qui per parlare dell'opera, senza dimensioni e senza data, alla quale Fontana ha sempre atteso". Nelle due accezioni di 'attendere': di promessa, di aspettativa, ma anche di dedizione fatale, di applicazione certosina. E l'attesa non vuole inutili commenti.

Un attimo

Ma allora, perché siamo ancora qui? È ancora Valéry a spiegarcelo: "Bisogna sempre scusarsi di parlare di pittura. Pure c'è grande ragione di non tacere. Tutte le arti vivono di parola, ogni opera esige che le si risponda".
La 'chiamata' di Vitali è troppo potente.

La fiaba della storiografia

Ed un ulteriore problema che nasce dalla sua pittura (dopo tutto quanto è stato scritto 'intorno' al suo lavoro, alla favola quasi della tardiva e avventurata scoperta da parte di un mentore autorevole come Testori) è l'inutilità ormai ed anche l'errore di tentare di storicizzarlo, di inserirlo in una serie di catalogazioni, di gabbie ("frigidi schemi" li chiama il suo mallevadore: "mappe precostituite") che assolutamente non tengono più, sono risibilmente franate ai nostri piedi di sconcertati, disincantati in attuali (se quella è la 'loro' "modernità"!). Ma nemmeno tentare, in fondo, a partire da lui, di proporre un percorso alternativo, rivoltoso, di riscatto.
Vitali è troppo e protervamente isolato, per cercare di rettificare, attraverso il suo tetragono, sanguigno percorso, il cammino effettivamente fuorviato e 'altro' e troppo poco frequentato di una storia dell'arte contemporanea, soffocata e vilipesa. Anche attraverso la condivisibile etichetta di "oltranza realistica", coniata per l'occasione da Testori.

Inutile

Che se poi volessimo dimostrare che nulla vale la parola critica, che è ridicolo illudersi di poter disegnare o ridisegnare davvero una storia dell'arte contemporanea, beh, basterebbe guardare per un attimo questi capolavori poco visti e non mai valutati, per rendersi conto che la critica non esiste, che le presunzioni catalogatorie degli storici s'infrangono di fronte alla spuma d'una minima superficie di tela.
Sarebbe sufficiente porsi di fronte a quel quadratino ridicolo (per dimensioni), che so, ventiquattro per ventiquattro, di bistecca annuvolata dal bianco della porcellana (E ancora carne) o al tondo assoluto del piatto di Agoni, per capire che non qui, occultati in 'quel' ramo del lago di Corno, dovrebbero nascondersi dei simili prodigi di pittura, ma stare semmai in un grande, pretenzioso e dunque inconcluso museo, accanto ai superbi Maestri più accreditati. E i deliquescenti delibatori di De Pisis, ma quanto mai potranno o potrebbero rimaner sordi ed indifferenti di fronte al magistero assoluto e trascinante, a quel monumento di pittura che è il Coniglio del 1985, con quella forza sironiana e sprezzante del corpo martire e abbandonato, e quel blu morandiano della marmitta che fa da sfondo?
E sironesco, forse, potrebbe anche esser valutato - se valgono questi raffronti - il fiero autoritratto sedicenne: di coltello il telaio d'un'opera al lavoro, che si sfilaccia, accanto al profilo protervo e ribaldo dell'interrogante ragazzo di paese e quel brano tra Caravaggio e De Chirico d'uva barocca, che s'indora sul breve davanzale del tavolo, dove garrisce la sfida arroventata d'una sigaretta.
"Sironi? Sì, probabilmente lo avevo anche veduto, e ammirato. A Milano ci venivo, le occasioni c'erano di ammirare, e scoprire. Soffici? Non so, certamente De Chirico, anche se in qualche modo non lo sopporto. Intendiamoci, non che non riconosca il valore, ma non è uno di quei pittori che andrei a cercare, che sento vicino. Venivo a Milano, e ad ogni viaggio tornavo con un po' di cultura, anche se io non ho una cultura, di nessun tipo. Sì, direi proprio che è un pericolo che ho corso. Perché non fa bene, io penso, essere così suscettibili alle influenze, a quello che si scopre. E io per temperamento lo sono, sono vulnerabile alle suggestioni, mi lasciavo influenzare. E non so se questo faccia molto bene.
Oggi ho deciso, no, meglio non vedere troppe mostre, sapere troppo: ora ho la forza di rifiutarmi. Ma allora? Per un ragazzo le influenze possono anche essere negative, se non disastrose. Meglio rimanere nel proprio brodo, nella propria schiuma personale, senza badare ai padroni della situazione culturale, quelli che contano, che hanno successo".

Una vana promessa

È per questo che noi vorremmo, per principio, quasi per un 'fioretto', impedirci (in tutto questo laghetto di parole, che andremo comunque a spargere, come caricaturali prefiche, intorno ai suoi quadri), trattenerci dall'usare nomi di confronto, paralleli di paragone, che ci sembrano, nell'occasione forte ed 'innocente' di Vitali, assolutamente superflui.
Certo, ci sono i riferimenti primi, espliciti, del 'Mio' museo quotidiano: quando Vitali personalizza la carta del tenero delle proprie suggestioni ed omaggia Caravaggio e Ceruti, Manet o Picasso. Ma quando per esempio guardiamo il Ragazzo del garage del 1947 (Vitali aveva a stento diciotto anni e aveva già intrapreso qualche fuga in trenino da Bellano), un quadro sotto cui il pudore del titolo generico si nasconde l'orgoglio di famiglia - famiglia di pescatori - che vede il fratello, maggiore o minore non importa, impegnarsi in un nuovo mestiere 'tecnologico', gaddiano ("in quegli anni gli sembrava la sua strada, la meccanica, poi avrebbe fatto tutt'altro"), ebbene, è giusto domandarsi a chi (Picasso? Van Gogh? Derain?) facciano pensare quelle mani enfie e sfatte d'una gioventù che vuole lavorare, sia pure tratteggiate con un'inconsueta sommarietà smagatissima, forse depisisiana... ebbene, ma che senso ha poi proporre delle soluzioni per noi rassicuranti, quando sappiamo che allora il giovane Vitali ben poco poteva usufruire dell'internazionale tavolozza della 'sindacale' modernista?

Il solito dubbio

Non sarà una malattia tipica della deficienza critica, questa d'aver sempre necessità del confronto, del rispecchiamento con altre esperienze?
E poi dove porterà mai questo vacuo esercizio?
“Il primo libro d'arte che ebbi in regalo, mi venne da una maestra della scuola elementare. Ma io avevo ormai 25 anni. Mi ricordo: era un libro su Caravaggio, ma non un vero volume d'immagini, era una storia romanzata, una vita con delle illustrazioni in bianco e nero. Allora del resto non è che di libri ne girassero molti, oggi sono diventati quasi un problema, col peso di quintali che hanno. Allora ci si accontentava di poco. Io devo tutta la mia 'cultura', se così posso dire, grazie ad un pittore allora famoso, Alfio Graziani, avrà avuto quarant’anni, sì, era del 1900, io ne avevo diciassette, lui era molto apprezzato, anche da Sironi, gli avevano affidato una parete alla Triennale nel '33, ebbene era sfollato sul lago, dopo che a Milano il suo studio era stato bombardato, distruggendo molte opere e libri. Lui aveva qualche libro, nella sua casa sul lago. Picasso l'ho scoperto molto tardi, così. Aveva anche un volume sugli impressionisti, il primo che mi rivelò la loro esistenza. Ma oggi non si può nemmeno immaginare che cosa fosse la conoscenza di allora, era un libro con riproduzioni fotografiche che volevano essere a colori, ma colorate a mano, come dalle suore. Quello fu il mio impressionismo. Mancava la materia per una conoscenza vera, diretta. Certo, qualche scappatella già la facevo a Milano, col trenino, e vedevo qualche mostra, tutto, nel '48 esposi qualche disegno all'Angelicum, ed ebbi i complimenti da Carrà, che li trattò come qualcosa di importante... No, i miei, no, mio padre e mia madre, che aveva una bottega di pesce, non ostacolarono mai la mia natura, semmai erano preoccupati, ma non ci furono resistenze, anzi, mi incoraggiavano, nei limiti delle possibilità di famiglia, che erano davvero poche. Le difficoltà erano molte, ma proprio per questioni di sopravvivenza, e fu grande il dolore di mio padre quando non poté farmi accettare la borsa di studio a Brera, un vero sacrificio. Ma non era possibile tenermi fuori di casa, vivere a Milano. Ed è così che ho incominciato a lavorare per necessità, che sono rimasto imbrigliato nella pittura su commessa, quella commerciale, per ristoranti, magari dieci tele al giorno. Non potevo pensare nemmeno di rimanere a carico dei miei, anche se allora non tiravo su che qualche mancetta, sottobanco. Quanto c'è voluto per mettere insieme qualche ghello vero, concreto! Graziani dunque è stato in fondo il primo vero maestro, io disegnavo già da tempo, ma lui mi ha dato i primi ragguagli tecnici, come preparare una tela, per esempio, e forse è anche da lui che ho assorbito quelle capacità che mi hanno permesso di legare la pittura ad un discorso commerciale, di sopravvivenza. Non so nemmeno se considerarlo un aspetto negativo. È andata così...”.

La tana del ciabattino

Da dove incominciare? Magari, fortuitamente, da La bottega di Pino Arrigoni detto Cecio, la prima opera, forse per ragioni di dimensioni e di ingombro - quasi per liberarsi del peso sullo studio - che Vitali mi permette di riincontrare dopo tanti anni di digiuno, nel suo ingombro atelier stretto sul lago. Un ciclone depresso di dettagli, di colle soffocanti e odori stantii di vita sudata, e scogli improvvisi di collages e cartoni impeciati nella pittura, e fogli di giornali e ritagli di pubblicità masticati dallo sfracello della veduta ingabbiata (collages con ben altre intenzioni dal decorativismo compassato cubista e braquiano) e fantasmi di scarpe stravecchie e flutti di tomaie e tacchi e ciabatte, un rigurgito quasi monocromo di color nulla e tempo deglutito, e lo sfrigolare per la porta-finestra d'un'aria malsana e imperlata di collami, che ci crolla addosso dai rovinanti scaffali come un temporale di primavera e non smette mai di farsi rimirare ed invischiarci nel poverissimo lusso d'un cromo-periplo, davvero magistrale.
Io non so se sia realismo, estremo o oltranzista, né troppo mi preme quella figura miserabilista, di ciabattino, che sta smorto e slavato, smangiato di polveri e vernici, alla tolda della sua ammiraglia color camoscio, la faccia cancellata, slabbrata come dal canto monotono dal martelletto usurato del suo tornio colloso: so però che è difficile trovarsi di fronte ad una parete, una partitura più eccitante di viva e morta, morente materia pittorica.
Eccola, la tentazione stolta dei nomi: questo Alma Tadema che ha imparato le creme biologiche, le perfide pomate di un Soutine. (Una ciabattante pittura imperiale.)
Lo giuro, non lo faremo più.

Scappando

E quel pezzo di pittura fresca che si stacca dal mogano della routine mestierante, quel gatto che sfrigge via trionfante e subdolo alle pendici del quadro, con una sardina tra le ganasce: un guizzo di vita. Lo stesso gatto dell'Annunciazione di Lotto, che ha attraversato chilometri di pittura, come un felino da notizia estiva, da ribalta del telegiornale: in prima pagina. Che qui risveglia lo sguardo incantato: perché se si scruta meglio, tra gli scaffali zeppi di usura, tutta un'esistenza sacrificata viene a galla, mugolando: ecco la gabbietta con i canarini ingrigiti di monotonia, la paglia infeltrita di fiaschi sgozzati anni prima ed una flottiglia di pesci remissivi e stecchiti, che navigano in quel fango intorbidito di cianfrusaglie e ciarpame. Quello stesso Gatto con pesce, che sornione ritroveremo anni dopo, protagonista d'un'inquadratura finalmente sua, afferrata fra i denti, scodinzolando colori e un pelame arruffato di bleu, in una prokofieviana sonorità esplosiva, da Pierino e il lupo.
La pittura di Vitali - e questo è illuminante - spesso procede per fotogrammi d'insoddisfazione, per scatti d'aggiustamento. I Quattro gatti chiusi nella scatola del loro sgargiante pelame arroventato tra occhi di zolfo, quasi fossero delle scolpite formelle romanico-espressioniste. Oppure gl'instabbiati capretti dalla barba bizzosa, quasi una reprimenda da preside all' antica. E le gioviali, pastose Mucche in posa (titolo geniale) d'un mugghiante fumetto, che lascia progressivamente salire la febbre della belluina aggressività. E quel vivace cagnino che fa le feste, e abbaia al colore e addenta l'osso della polpa pittorica, e infine recita le sue reverenze a Bacon, rivoltolando zampette e pelame. Ecco dove si finisce, di omaggio in omaggio.

Carne e macello

La sanguigna carnagione che si sprigiona dai ritratti di Vitali (perché comunque di ritratti sempre si tratta, anche ritratti di paesaggio) presuppone la macerazione delle forme, anzi, la macellazione.
Ha ragione in questo Testori: "In effetti, là dove l'oltranza realistica, in Soutine, torce l'immagine della realtà, la lacera e le fa conseguire un percorso di strangolamento, quasi a lui sia necessario farle attraversare un tunnel da cui non potrà uscire altrimenti che 'deformata', in Vitali l'oltranza coincide, non certo pacificamente, bensì tramite un tumulto rapinoso e sconvolto, con il massimo d'obiettività". Ma la deformazione per Vitali è insita come nel destino delle cose, delle carni. I volti sono già corrosi da una lebbra, che li disfa in smorfie e funebre preghiera: e se ne va come una tenera fumatina di dopo-pranzo il viso sghembo e vinaccioso del giovane Achille. Oppure, terremotato da una risata, si disfa il conclave ebbro della Festa ai Roccoli, l'anatomia dell'amico esangue, che si fregia appunto del titolo Risata. Mentre tutti gli altri, enfi e catarrosi, sono già vanitas di una polvere che ha ancora la vanità di fingersi carne, trippa, mandibola.
E ancora carne è del resto il titolo di un quadretto magnifico, cui già abbiamo alluso: titolo butleriano, perché l'intiera produzione di Vitali è una meditazione sul Come muore la carne. Con un di più appunto di sanguigno, di pletorico, di gridato, di collassato anche, come quando si beve l'ultimo gotto di grappa con gli amici, per farIa vedere ai commensali (così del resto dipingeva Caravaggio, secondo il Malvasia: "Fece il Caravaggio una caraffa naturalissima con dentro fiori: portò il caso che la vedesse presso il Cardinale del Monte il Caravaggio che l'accirtò esser di sua mano non del [rivale] come gl'era falsamente da lui stato supposto e gl'avrebbe fato vedere quando gle la fece altri più belli").
Allunga il collo già tirato, come per entrare nella 'fotografia', la beccaccia con muso di papera, che si fa Natura morta nel 1947. Contraltare strozzato e lungo d'un mazzo sforforato di fiori. Poi l'occhio s'avvicina ed incancrenisce, di fronte ai primi piani più violenti e colorati, le interiora in bella vista, delle Faraone 1978, inchiavardate a strani spiedi da ferramenta. O i galletti spiumati e spettinati degli anni successivi, tra crudi Pezzi di carne scuoiati e addentati dalla forbice della crudele macellazione o ancora gli spettrali conigli dalla pelle imberbe.
I conigli-brontosauri della nostra mensa insensata, arresi sull'altare, paonazzo di panno, del bianco lenzuolo. Le decapitate teste, spaventate del loro stesso sangue, che inzacchera spavaldamente la tavolozza.
Ma guardando anche quei pochi cuochi, pallidi di sangue, che s'aggirano per verminose cucine lucide di succosi vapori, come non pensare che sono loro stessi carne macellata e messa allo spiedo d'un'esistenza sinistra, il manzoniano aiuto-cuoco che ha assunto la stessa curva sbullonata ormai dei suoi capponi stremati dalla lotta, il cuciniere disfatto, dalla sagoma scotta, che s'affaccia sullo specchio crudele d'una pentola, che bolle il suo vermiglio inferno. Confrontando la sagoma tumefatta e sbrindellata del carnefice Tognetto Rusconi, beccaio di Bellano, chi è il vero macellato? Chi è più pollo, spollato e bollito, del Cuoco con pollame? E un titolo sottolinea, infatti, ferocemente: Quel coniglio d'un cuoco.

Marco Vallora
Vitali (opere 1945-1995)
Electa, 1996