Giovanni Testori | Il ritratto come cannibalismo, 01/01/1987

Giovanni Testori | Il ritratto come cannibalismo

01/01/1987

Giovanni Testori | Il ritratto come cannibalismo

Sembra quantomeno opportuno avvisar subito il visitatore come il titolo della presente rassegna, mutuato da un'affascinante mostra parigina d'alcuni anni fa, nella quale, per altro, erano state raccolte opere appartenenti ad artisti o secoli diversi, sia responsabilità (o, se così parrà, errore) del qui scrivente. Ugualmente sembra opportuno avvisare come sia da porre sul conto del medesimo la divisione dell'opere, tanto in mostra, quanto in catalogo (che la mostra intende consegnare "a futura memoria"); la divisione dicevo, non già secondo una linea dritta e normale, quella cioè cronologica, bensì secondo una linea spezzata, aggrovigliata, ingarbugliata, sgarbugliata e, poi, subito, ringarbugliata; quella linea, o non-linea, intendo, che deriva dalla divisione per gruppi di simpateticità psico-somatica, psico-formale, psico-stilistica, psico-erotica, psico-nevrotica, psico-sensoriale, psico-sessuale e, in modi addirittura trionfanti, psico-sentimentale; quest'ultima simpateticità, ove l'aggettivo lo s'incastri sull'umida, muschiata pietra di se stesso, non per ottenerne una degradazione verso l'ismo, bensì per riconoscergli la capacità di contenere ciò che, appunto, lega e slega ogni famiglia; ciò che i di lei membri, tra volontà dell'Iddio, sperma, gene, piastrine di sangue e animus, irreparabilmente eguaglia ed assembra, ma, altrettanto irreparabilmente, allontana, separa o, addirittura, disgrega; caricandoli d'odio e, talvolta, direttamente, e delittuosamente, di coltelli o d'altre armi.

 

In pochi gruppi umani, come nella famiglia (e, questo, lo sa bene ognuno di noi), convivono gli opposti. Tuttavia, salvo il caso d'irricomponibili ferite, le quali risultano quasi sempre d'origine ed entità economico-ereditaria, la tomba (che, non per nulla, si nominerà "di famiglia") rimette tutti e tutto a posto. O l'urna delle ceneri. Visto che l'uso della cremazione è, ora, ammesso anche dalla Chiesa. E visto che i cimiteri si stan facendo sempre più stretti; almeno, per la presente bisogna. Quanto al futuro, infatti, è noto a tutti come qui, nella bell'Europa, le nascite continuino, precipitosamente, a calare. E, tuttavia... Tuttavia, oggi come oggi, al mio paese, per far un esempio diretto, anzi l'esempio "in diretta" per eccellenza (se là avrà, appunto, da essere la casa del mio finale riposo), la necessità di prolungamento dello stratificatissimo "borgo" dei morti, ha da far i conti con l'adiacente autostrada (per più esattezza, la Milano-Bergamo). Così, se passerà in Giunta il progetto, metà morti di Novate se ne staran di qua e metà di là dalla "via maestra" dell'attuale civiltà: quella della locomozione sempre più veloce; anzi, sempre più demente e folle. Perepè! Perepè! Che altro suono mai trascrivere, visto che proprio della suonata ultima, e improcrastinabile, stiam parlando? Perché vivere e, dunque, approssimarsi fin dal primo "huè-huè" all'armadietto della bara, non è forse l'unica, umiliata e umiliante, ma, insieme, sicura e intangibile gloria a noi concessa? Bisognerebbe passare la domanda ai personaggi che compongono questa famiglia, la quale (il lettore deve pur esserne messo al corrente) avrebbe potuto tranquillamente raddoppiarsi o triplicarsi; ai personaggi, dicevo, fulminati lì, dal pennello-fioretto-spada-coltello-spiedo, ma anche dito-palmo e labbro, del Vitali; e fulminati, ora nell'allegra demenza del vivere come se nulla fosse (appunto, il viver loro e, dunque, nostro); ora nella splendente bellezza; ora nell'essudante fatica; ora nella inclemente disperazione; sempre di lui, il vivere che gli è toccato, gli tocca e gli toccherà; gli toccherà, s'augura a tutti, per lunghissima pezza ancora.
Una prima, tragica, sanguinante, ma anche cesarea, anzi, imperial risposta, potrebbe venirci da chi, emetter suono, non può più; se pur, quando emetterlo poteva, non di parole si trattasse, bensì di muggiti. Già, ma chi può assicurarci che i muggiti non siano anch'essi parole, parole ridotte alla loro primigenia e trogloditica essenza? Parole; segni; segnali; avvisi; allarmi; singhiozzi; canti, anche, d'amore (negli attimi della monta); e, poi, quando il boia lo trascini al "fatal destino", disperati rifiuti: "no! no! no!"; da che, il rantolante lamento; e, infine, l'ultima, squassante emissione del respiro; da parer una raffica d'atroce, giudicante verità. Ecco: anche il toro appeso, qui, ben due volte, la prima sulla tela, la seconda sui muri, il lettore ha da attribuirlo alla volontà del solito scrivente. Un toro appeso all'uncino del mattatoio fra tanti "ritratti"? Anzi, come non bastasse, fra tanti "ritratti radunati in famiglia", e talmente, poi, nominati e titolati? Non sarà un po' troppo? No. Non sarà. Non è. Ché quel toro forma, della famiglia, il punto più orrido e, insieme, più splendidamente pitturale; il più esterno e, insieme, il più tragicamente interno (e, qui, si parla d' ''interiora'' proprio di lei, la creazione). Ora, per giudicare se la volontà, e la connessa richiesta, dello scrivente furon giuste o, invece, errate, bisognerebbe "studiarlo" bene, questo toro, e veder se anch' esso, anzi, anche lui, o anch'egli, non sia, per caso, personaggio. Noi, il toro, lo divoriamo; in ogni "famiglia"; servitoci, in svariatissimi modi, sui tavoli delle nostre mense; a mezzodì o a sera; dipende. A lui demandiamo, comunque, il sacrificale onere d'acquetare il nostro antico, e nient'affatto perento, cannibalismo. Già questo è atto che giustificherebbe l'introduzione dell'enorme, abbagliato e scomodo intruso nella mostra; talmente enorme, abbagliato e scomodo da rischiar di diventarne il re; certo, del grande, svariatissimo mazzo dei dipinti che questa rassegna compone, la carta vincente; non so se verso la morte o verso la vita. Insomma, Jolly o Peppa-tencia?
Non ha sottomano, chi scrive, Carmen alcuna cui porre la questione; né, egli, minimamente si sente José; chiamandosi, semplicemente, Giovanni; o anche Proff. Ed è, per l'appunto, il Proff. che, da regista poverissimo di sé medesimo che gli capitò d'essere in due occasioni, epperò fin qui (il che significa che, entro la sua testa, ne rimugina almeno un'altra); è, per l'appunto, il Proff. che, affondato nell'ombra d'un palcoscenico (forse il "Porta Romana" che, nonostante tutto, è il più bel teatro di Milano); che, ivi affondato, indica, chissà, all'Adriana Innocenti dell'Erodiade (prima che corra a urlare come una Furia il monologo suo sul palcoscenico del Beaubourg) o all'immenso, straziato Branciaroli del Confiteor; indica l'assassinato e decapitato fratello loro (e nostro e vostro); oltre che di Jokanoan; del quale, come ognun vede, ne ha dovuto ripetere il tragico destino.
Attesi i dettagli che parve giusto indicare come volontà dello scrivente, a questo punto converrà dire che la sopradescritta "regia" (il fatto, cioè, che a noi sia stato demandato d'indicare il re, o imperator, macellato), fu proposta voluta e sostenuta, con "toreutica" o "toreadorica" violenza, dal gran Vitali di Bellano; anzi dal gran Bellanasco, per nominarlo altra volta come il vento che, sopraggiunta la sera (o "sira"), si scatena sulla quiete del lago. Lasciamo al visitatore di rispondere se anche a lui, come a noi, paia proposta azzeccatissima; ancorché la proporzione tra toro e Testori sembri alzar il piatto della bilancia ove ci troviamo seduti; su, su, fino al limite delle nubi; tanto, nei suoi confronti, ci sentiamo leggeri; non certo di peccati; ché, allora, precipitar dovrebbe il piatto nostro giù nel baratro degli inferi; ma di moral peso; e d'esistenzial sostanza; anzi, d'esistenzialissima entità. Comunque, azzeccatissima, a noi, la vitalesca proposta è parsa proprio perché, con quell'indicar della nostra mano, segnala nel modo più indirettamente diretto, segnala, ecco, in fieri, il nostro critico convincimento. Tale convincimento recita che nel Vitali, o nel Bellanasco, tutto, ma proprio tutto, è "ritratto". Dizione assai più giusta di quanto non sarebbe quella che recitasse come tutto, in lui, "ritratto", lo diventi. In questo secondo caso, infatti, si tratterebbe d'una disposizione verso la quale il nostro lacustre maestro arriva per spostamenti; insomma, per studiosi, e studiati gradi o gradini. Laddove, nella sua grande e sconcia verità, il lacustre maestro, in tal disposizione, si trova e vive. Anzi, per dir tutto, tal disposizione è, nulla più e nulla meno, che la sua stessa vita (e scusate se è poco). Da parte nostra ci chiediamo, anzi, se non derivi dall'insostenibilità del suo destino a far di tutto, ma proprio di tutto, "ritratto", la segretezza, la laica "clausura", cui, da anni, il Vitali costringe la propria vita; quasi sapesse troppo bene come ogni nuovo incontro finirebbe per portargli via un pezzo del suo corpo, un lacerto della sua testa, un lobo dei suoi polmoni, un soffio del suo respiro; come finirebbe per divorargli qualche etto di carne e per sorbirgli qualche bicchiere, o bicchiere e mezzo, di sangue.
Immaginiamo che il lettore stia per capire da sé come quella particolare attività, o conflittualità abbracciante, che è il "ritrattare", non possa aver luogo se il ritrattista non si mette, a sua volta, o a suo turno (che è sempre un turno "a priori") proprio lì, nella tavola e nella tavola imbandita; se non si mette, insomma, anche lui, dentro un piatto; per farsi oggetto o soggetto, degli altrui pasti. "Voglio mangiarti, amore; per restituirti, certo; e in quali strabilianti modi, vedrai, lì, sulla tela"; "bene - gli vien risposto dall'amore (si fa per dire) - Ma, per reggere al tuo pasto, ho da usar anch'io su di te il coltello, la forchetta, i denti o le loro supplenti protesi...".
Il lettore non s'illuda. Tal pasto può avvenire anche con "persone" che son già quadri. Anche tali persone faranno al pittore le stesse richieste. Come tacere di quest'altro dettaglio se la rassegna prende criticamente avvio proprio da uno di questi casi? Scrivo uno, poiché il Vitali ha eseguito una, tal serie di d'après che basterebbe, da sola, a far mostra o libro: e qual mostra o qual libro! Il caso in parola si rivela di strettissima origine, e ragione, familiare. Per un lombardone (Cernusco, qui, non c'entra; o, magari, sì, c'entra; per via, se non erro, d'un sublime pasticcere, del Vitali grande amico, che v'abita nei dintorni); per un lombardone, anzi, per un lombardissimo, com'è il Bellanasco, la scelta ritrattistica nel passato dei cosiddetti "precedenti" non avrebbe potuto, in alcun modo, uscire dalla seguente terna: Moroni, Galgario, Ceruti. Che il Vitali abbia scelto l'ultimo, sta forse a significare una sua predilezione, non populistica, ma, assai più concretamente, di popolo? È più che probabile. E le persone che, lungo il corso degli anni, ebbe a prendere quali soggetti dell'atto cannibalico, tanto attivo, quanto passivo, son lì, a dimostrarlo. Anche se, poi, la vena, o venosità, che talvolta si fa addirittura acredine, voluttà di confessare, denudare, incidere, piallare, infilzare, ungere, accarezzare, forare, perforare, turare, otturare (proprio come un dentista), quando addirittura non si faccia bavoso e smagliantissimo sadismo (ma, allora, per via della succitata tensione cannibalica, sarebbe meglio scrivere: sadomasochismo); anche se, dicevo, la vena, o venosità ironica, sembra, quale sunto della mostra, aver il finale, e trionfale, sopravvento. Ed è vena, o venosità, che, democraticamente, s'esercita tanto sul popolo, quanto sulla borghesia o sul mondo, ovverossia brevissimo regname, della cosiddetta cultura. Non si tratta, però, di un'ironia espulsa dai rapidissimi, attorciglianti, stilettanti e infilzanti pennelli vitaliani, per adire un giudizio che liquidi anche uno solo dei partecipanti alla gran "famiglia". Quella del Vitali è un'ironia che, se mai, tutti, a modo suo, intende assolverci. E intende assolverci, tramite la sola carità che compete a un pittore: quella del pittorico e materico splendore. Splendore col quale scende dal ritrattista sul ritrattato, e viceversa, un segno, anche, di perdono. "Va', e non voler più peccare...". Già! È una parola! Anzi, è un colore! E, tuttavia, ogni vivente che il Vitali ha fatto entrare nella sua "famiglia", quel colore, quel colore intendo, di perdono se lo porterà addosso (e dentro) per tutta e intera la vita; e, con lui, in qualche modo, dovrà far i conti e farli per sempre. Ora è qui, proprio qui, che batte l'ala (o, forse, è qui che s'alza il verdiano "d'amor sull'ali rosee"); l'ala dicevo, d'un altro genio di Lombardia; quello che ebbe a passare l'infanzia proprio nelle stanze in cui la presente rassegna ha la sua prima sede; il genio, ecco, del Manzoni. Ed è poi così che, tornando dal Manzoni al Ceruti, il visitatore potrà assistere meglio al passaggio da un d'après, d'assoluta fedeltà, della famosa Vecchia contadina della pitocchesca Francia Corta, a un secondo, dove l'interessata par spostarsi verso l'Agnese, appunto, dei "Promessi"; per finire con un terzo, nel quale sembra impazzita; resa, sembra, folle dall'impossibilità a restar contadina cui il modernissimo progresso-regresso la sta dannando; e dove, in tal dannazione, sbecca fuori (per: butta fuori dal becco) una risata che, più o meno, dice: "mors mea, mors tua...". Non c'è, ecco, di che star allegri! Infatti, l'infollita, prosegue: "tu freghi me, bel progressino o progressone mio? E, io, frego te...". Di fatti... Di fatti, Seveso o Chernobyl che si chiamino, i "testi" della fregatura son lì da vedere; da toccare; e, speriamo da meditare. Questo si scrive ancorché l'allegria (l'''allegria - diciam così -, di sevesati e chernobylati") par che, in questa rassegna, corra da un capo all'altro. Ma più essa si sganascia in meraviglie, cascate, cascatelle, riflessi, riflessioni, cristi, cristalli, cristallanti, cristonanti, in risa, risate, mance, manciate, scentri, scentrate, esplosioni, inclusioni, espulsioni, mangiate, vomitate, stitichezzate emorragie o vagotomie di loro, le pittoriche meraviglie, più fa trasudare da ogni dove una sorta di stralunato, mortale memento. Come se Vitali, sotto sotto, quale sunto della sua impresa mirasse a dire: state attenti, manducati miei; che suona, poi, anche: state attenti, manducatori di me; là; più in là; ancor più in là; in quel tal là che non può essere né toccato, né nominato; ecco, là, proprio in quel là, pur se anch'io non so dov'esso si trovi, abita il nostro vero e unico traguardo... Non tirerà più, allora, alito alcuno di vento; proprio non tirerà proprio per nessuno. La barca, non sarà stata quella fornitaci dal Fra' Cristoforo di turno, bensì da lui, il Caronte di sempre... Già, ma se, poi, alito di vento, d'un vento a noi ignoto, dovesse tirar anche là, anche sottoterra e, poniamo, per il qui scrivente, tra la corsia d'andata e la corsia di ritorno della Milano-Bergamo?
Accogliendo anche quest'ultima, terrificante o, forse, rasserenante, interrogazione (non si sa mai, un po' di vento, anche là, soprattutto quando verrà giù, se ancora verrà, l'afa estiva...); ecco, accogliendo anche quello, la gran "famiglia" del Vitali è pronta per squadernacisi davanti. Ed eccola lì la multipla, eretta, cadente, dolcissima, furiosa, irrisa, irridente, manducata, manducante, incazzata, incazzante, pacificata (epperò non troppo), pacificante (non troppo, anche questo); eccola lì, la memorabile cascata delle pittoresche meraviglie vitalesche. Ecco lì, dentro la cascata, Alain, fasciato d'amore e d'adulta malia, che gioca a mosca-cieca con un mazzo di gladioli (les glaïeuls) e lo fa "du côté de sa mère"; una madre bellissima, tutta in avana, come se pittata l'avesse un Manet redivivo; ecco il mirabolante, goyesco chignon della Galli (e, dietro, fulminato da un'attimalità ai dì nostri sconosciuta, l'occhio infallibile e fedele del Raimondi, detto Giovanni); ecco il passo consapevole (e maestrevole) del Dell'Acqua, alto "che più alto non si può" (salvo far saltare il telaio e bucar poi il soffitto di Villa Manzoni), ecco l'apparizione-sparizione dello Sgarbi (c'è? C'era. E, adesso, dov'è? Ma! Chissà! Può darsi che, da un momento all'altro, torni. E, come, se m'ha telefonato da Londra? Da Londra? A me, han detto che l'han visto ieri a Mogadiscio...); ecco l'infilata (o è meglio dir "infilzata"?) dei cuochi, imbrattati di sangue più delle loro stesse vittime e che, come quello che le vittime stringe sembrano urlare un loro, ridentissimo e, insieme, tragico "chicchirichì" (nel quale anche la memoria di Soutine esplode, salta in aria e si fa scandalosa, ematica bagna); ecco l'epa gloriosa, e gloriosamente neo-paesana, del Vittorio; ecco l'alta, perché umilissima e come rosariante malinconia del sagrestano di Pasturo; ecco il bellissimo "gioco" varliniano del Maestro Arnoldi che sbuca fuori, paonazzo come un Barbera, dall'insegna della "Pro Cultura" (e l'insegna prepopartamente, o postsacromontanamente, e proprio essa lei, l'insegna); ecco, con un fulminante, indimenticabile ritorno di fiamma del Doganiere, ecco, dicevo, l'ignoto "bamba" de La prima comunione, il quale chissà le volte che s'è di già masturbato! (Ma, quella mano penzolante fuor dall'ovata tela, penzolante sulla cornice, chi potrà più scordarla? Solo Bedarride, l'ignoto e grandissimo Bedarride, seppe avere di queste fulminanti intuizioni; e un giorno, si spera, anche il Bel Paese nostro si deciderà a sapere e a far sapere chi egli sia stato, ben oltre la di noi breve notizia sulle pagine del "Corriere"); ecco, l'atroce "Risata", che sembra far le beffe a un non mai esistito "futurismo psicologico" e, insieme, a tutti i poveri baconiani di casa nostra, una "Risata" che, appena ci mettiamo a fissarla un po' troppo, ci risucchia in sé come un'oscena ventosa; ecco il pudore alto, quasi tremante, con cui passano, o stan lì, fermi, i membri della real famiglia del Vitali (che è la più "reale", per realistica, e la meno "reale", per regale, che lo scrivente conosca); ecco... No. Ecco un corno! Di ecco, adesso, basta. Il periodo s'è fatto d'una lunghezza insostenibile; biscia orrenda, s'è fatto. E il lettore, ben lo vedo, ha di già preso a sudare... Ora è vero che il catalogo intende consegnare "a futura memoria" la mostra; epperò il catalogo; non la prefazio. Sarebbe stato meglio pensare a una postfazio (o "postfazione") come usa da qualche tempo? Assolutamente incerti su cosa in verità sarebbe stato da preferire, ci apprestiamo a chieder venia al lettore; venia e scusa. Egli, da visitatore, avrà capito ben oltre ciò che il nostro strampalato discorso potrà avergli suggerito. Ma, ecco, non potremmo, oltre che non vorremmo, accomiatarci da lui, senza dirgli che, anche noi, come il Vitali, siam presi, a questo punto, dalla voglia di prender le forbici e giù; taglia di qui; taglia di lì; rimetti insieme; cose d'ieri; e cose d'oggi; getta a terra; sporca; tirane su un pezzetto, un pezzettino soltanto; incollalo; rigettalo a terra; ritiralo su... Già, ma riuscirà a noi il puzzle critico, così com'è riuscito a Vitali il puzzle "ritrattistico", puzzle con cui la mostra si autosega, si autotaglieggia, si autolesiona e si automartirizza? Del resto, tutto questo, perché il Vitali lo fa, e perché proprio all'interno della "famiglia" che il cannibalismo ritrattistico l'ha costretto a generare?
Forse per darci una prova tangibile della totale vanità, e dunque, tagliabilità in pezzetti e pezzettini del tutto? O non, invece, come a noi pare, perché la risata s'alzi ancor più lucida, ancor più forte e, senza avvederci, ci porti tutti, pittore, personaggi, prefatore e visitatori in quel là dove noi pensiamo non debba più tirar alito di vento alcuno, ma dove, chissà, tirano ben altre arie che il Bellanasco, o il Tivano dove, ecco, si scatena la "bufera infernal che mai non resta"? Saremmo, allora, tutti, e per sempre, dannati alla dannazione? No. Non questo vuol dirci il nostro Vitali. Bensì avvisarci che, di questo, una possibilità, cristiani-cattolici o no che si sia, resta pur sempre; e che, ecco, "va', e non voler più peccare..."; anche se il peccato, dovesse essere un puro, o impurissimo, colore; quel colore che qui celebra, impiastrato nella "famiglia" degli umani, uno dei suoi più sorprendenti e, al di d'oggi, inattesi trionfi. Ma, allora, potendo, non è meglio farne a migliaia di peccati così?

Giovanni Testori
La Famiglia dei Ritratti
Electa, 1987