Ludovico Pratesi | La pittura del Bellanasco, 01/01/2000

Ludovico Pratesi | La pittura del Bellanasco

01/01/2000

Ludovico Pratesi | La pittura del Bellanasco

Il "Bellanasco" si presenta ai lettori

Un critico fine ed acuto come Giovanni Testori lo aveva soprannominato "il Bellanasco", per sottolineare con una punta di arguzia il suo paese di origine, Bellano: quel borgo lombardo affacciato sul lago di Como dove Giancarlo Vitali è nato nel 1929, figlio di una famiglia di pescatori da generazioni. Nelle sue vene scorre l'acqua di quel lago da cui "il Bellanasco" non riesce a staccarsi, risoluto a voler intraprendere, fin dall'età di quindici anni, l'impervia e difficile avventura dell'arte. Un'avventura a cui non si comanda, capricciosa e totale, che lo porta ad abbandonare ami e canne da pesca per tavolozze e pennelli, gli strumenti per raccontare il mondo che lo circonda con una pittura forte e viscerale, a tratti perfino violenta in certe cromie feroci e assolute, e nelle materie, spesse e pastose, pronte con la loro densità a rendere ancora più reale l'impatto visivo dei "fasti della pittura".

 

Fasti che vengono celebrati da Testori in un articolo pubblicato alla fine di agosto del 1984 sul Corriere della Sera, dove presenta ai lettori Giancarlo Vitali con parole vibranti di entusiasmo per una pittura "sontuosa e trionfante di sughi, succhi, rapine cromatiche, carnali ascendenze e debordante, sempre, di fiumi, di rose, di peonie e di sangue". Un testo incandescente, dove il critico racconta di aver scoperto l'artista per caso, grazie alla fotografia di un dipinto che raffigurava un coniglio scuoiato. "La certezza che fosse pittura da toccare, d'amare, e da cui lasciarsi toccare, abbracciare, amare, ci afferrò subito" racconta il critico, che presenterà con lo stesso entusiasmo, la prima mostra di Giancarlo Vitali alla Compagnia del Disegno di Milano. Così, dopo più di cinquant'anni, la pittura di Giancarlo Vitali esce alla luce del sole, battezzata dalla penna penetrante di Testori. I fasti di un'arte rimasta nascosta per anni vengono finalmente celebrati, e l'itinerario espositivo di Vitali si infittisce di tappe sempre più importanti e prestigiose, fino ad approdare all'ampia antologica curata da Marco Goldin al Palazzo Sarcinelli di Conegliano nel 1996. Un corposo e per molti versi sorprendente riassunto di cinquant'anni di attività, che svela al pubblico le diverse sfaccettature della pittura del “Bellanasco”.

Il richiamo della carne

Ed è ancora Testori, che abbiamo voluto, et pour cause, eleggere a Virgilio nell'itinerario dentro la pittura di Vitali, ad indicare quello che, a nostro avviso, costituisce uno degli elementi di maggiore forza di un'arte ruvida e schietta, diretta fino a sfiorare la crudeltà pur rimanendo intrisa di autentica poesia. Parliamo del richiamo della carne, quell'energia primigenia che spinge il pennello di Vitali ad accendere di rossi sanguigni i corpi squartati di tori e conigli, galli e faraone. Un rosso che parla di una realtà esibita senza freni o barriere, con quel verismo inserito a buon diritto in quella "linea del sangue" che attraversa gli ultimi quattro secoli di pittura occidentale. Una linea purpurea che comincia con il sangue che sgorga a fiotti dal collo di Oloferne sgozzato da una Giuditta ferma e decisa nel dipinto di Caravaggio ora al palazzo Barberini di Roma, che aprirà la strada a tanti altri "delitti al femminile", come quello di Artemisia Gentileschi, dove dietro alla furia omicida della donna si cela la rabbia della stessa Artemisia verso il suo violentatore Agostino Tassi, un trauma giovanile punito con una sorta di "vendetta dipinta" densa di memorie d'orrore. Un Caravaggio fortemente sentito da Vitali, che ricorda di aver ricevuto all'età di 25 anni un libro sulla vita del "pittore maledetto", che gli era stato regalato da una maestra di scuola elementare[1]. Questa linea di sangue scorre da una tela all'altra, per toccare alcuni capolavori come il "Bue squartato" di Rembrandt e lo spaventoso "Saturno" di Goya dalla bocca sanguinolenta (tanto per citare i più noti) fino alle carni lucide di umori delle tele di Chaim Soutine, citato giustamente da Testori come diretto referente dei "Macelli" di Vitali. In quei grumi di sangue e colore si respira una storia di sofferenza vissuta ogni giorno, consumata nel tentativo di uscire dalla prigione della pittura d'occasione, del quadretto commissionato e realizzato in fretta per raggranellare qualche soldo, un tempo strangolato che non lascia spazio all'avventura della pittura vera, grande, capace di cogliere il respiro degli orizzonti per trasformare anche il più piccolo oggetto quotidiano nel muto protagonista di un capolavoro. "Le difficoltà erano molte - confessa Vitali - ma proprio per questioni di sopravvivenza, ero rimasto imbrigliato nella pittura su commessa"[2]. Spinto dall'urgenza del pennello, l'attenzione del "bellanasco" si fissa sul mondo che conosce, quello del borgo di Bellano: il suo lago, la sua gente, i piccoli riti quotidiani della campagna lombarda, modeste e silenziose scansioni di anni che sembrano non passare mai, ma in realtà filano via veloci per non tornare più. Solo la pittura riesce a fissarne gli istanti più intensi, una pittura sommessa o urlata che possiede la forza interiore della poesia di uno sguardo che afferra la realtà per riportarla sulla tela senza lasciar scappare la fragranza dell'attimo, il bagliore di un raggio di sole sul viso di una persona cara, un gatto accovacciato accanto al camino o il gesto rapido ma preciso di un contadino che taglia il collo a un maiale. Una pittura di getto, veloce ma sempre consapevole, che trova le sue radici nelle soffuse nature morte di Filippo De Pisis, nei volti tristi e pallidi dei ritratti del Pitocchetto o di Frà Galgario, ironico e compiaciuto interprete dei malori esistenziali della nobiltà lombarda del Settecento, quelle nobildonne canute dal collo scarno avvolto in una pelliccetta grigia e spelacchiata... Ma la materia di Vitali è più robusta, nervosa, scattante, parente per certi versi del versante più nobile dell'informale europeo, e penso ai paesaggi di Ennio Morlotti o alle vibranti e drammatiche densità degli "Otages" di Jean Fautrier. Un modo tutto suo di riscoprire la realtà del mondo attraverso una pittura che a volte tocca quasi le frontiere con certo espressionismo tedesco, quasi a strizzare l'occhio ai protagonisti della Neue Sachlickeit: a questo proposito Marco Vallora ha giustamente citato Schlichter e Schad, personalmente aggiungerei anche Dix e Grosz, soprattutto per la vena quasi caricaturale presente in alcuni ritratti, come quello del sindaco Balbiani - Cima (1972-85), del sagrestano di Pasturo (1990), del macellaio Tognetto Rusconi (1991) e infine del farmacista Pirola (1992).

Lunario minimo: un percorso per immagini

Veniamo ora a questa mostra, che presenta un'originale selezione di trentaquattro dipinti nell'ex chiesa di San Lorenzo a Cento, che documentano per campionature gli ultimi trentacinque anni di lavoro di Giancarlo Vitali, dal 1965 ad oggi. Perché dico originale? La ragione è semplice: questo "lunario minimo" è stato concepito come una sorta di journal intime, un diario per immagini costruito da opere che vanno dal piccolo dettaglio alla grande composizione, in modo da permettere al pubblico di entrare direttamente a contatto con l'immaginario privato, intimo e segreto dell'artista. Un itinerario che unisce quindi momenti creativi diversi tra loro ma sempre complementari, frutto di quella visione capace di celebrare i fasti della pittura attraverso le inezie del quotidiano.
Questo percorso per immagini si apre con due opere degli anni sessanta, "Interno di cucina" (1965) e "Nella stalla"(1967).
Tra le mensole dell'ambiente semplice e contadino si avverte ancora la presenza illuminante di Morandi, in un "paesaggio di oggetti" in bilico tra metafisica e realismo magico, mentre l'atmosfera umida della stalla dove il contadino si appresta a mungere la mucca richiama alla mente ancora una volta i "pitocchi" del Ceruti, tanto simili, nel volto rubizzo dai tratti scomposti, ai protagonisti del "Rito autunnale"(1991), intenti a scannare il maiale, in un esplodere di pennellate che accendono di bagliori inaspettati la modesta macelleria di campagna. E sono proprio i visi delle persone più umili, i diretti discendenti dei contadini di Van Gogh, ad animare alcuni tra i migliori dipinti di Vitali, a conferma del suo indubbio talento di ritrattista della gente comune.
Del "Ritratto del macellaio Tognetto Rusconi" (1991) che sembra appena uscito dalle pagine del "Macellaio", il famoso romanzo erotico di Alina Reyes, accompagnato dal capoccione sanguinante del toro abbiamo già parlato, ma vi invito piuttosto ad osservare la dolcezza quasi disarmante del viso della bambina dai tratti semplici, quasi matissiani, nell'opera "Marianna"(1967), o l'espressione assorta del contadino intento a mangiare nel dipinto "La zuppa"(1981), che riprende il gesto di affondare il cucchiaio nella scodella, reso celebre dal "Mangiafagioli" di Annibale Carracci. Altrettanto concentrata appare la contadina dal viso scavato che spenna i polli con mosse rapide e attente, facendo volare nell'aria le candide piume dell'animale ("Il pollo spennato", 1990), mentre la dice lunga l'espressione sardonica del "Mediatore" (1984). È Bergamino, il mediatore di bestiame, con la sigaretta in bocca, le guance rubizze per un'eccessiva frequentazione delle osterie e la mucca sul cappello, paragonato da Vallora ad un personaggio uscito "da un verso in dialetto di Zavattini".
Dai volti estratti da una folla di macellai, contadini, pescatori, ragazzi di paese, sacrestani, cuochi e farmacisti (illuminata anche dalla presenza di personaggi illustri come Giovanni Testori, a cui Vitali ha dedicato alcuni ritratti di folgorante intensità) si passa agli oggetti, colti dal pittore in una serie di "nature morte contadine" altrettanto degne di attenzione. Sono rami nervosi di una vigna seccata dall'inverno ("Vigna d'inverno", 1971); due o tre fichi violetti in una cesta di vimini ("Fichi nel cesto", 1995); una pigna e qualche fungo poggiati sul candido piano di un tavolo ("Il fungo e la pigna", 1991) oppure una zucca tagliata a metà, che mostra i suoi bianchi semini avvolti nell'abbraccio della polpa arancione ("Zucca tagliata", 1978). E poi, certamente, i fiori: mazzi di girasoli dai petali sfrangiati ("Girasole", 1985), un triste mazzo di rose appassite ("Rose appassite", 1995) e un mazzolino di candidi bucaneve ("Bucaneve", 1989). Una flora discreta e timida che aveva colpito l'occhio di numerosi critici, buon ultimo quello del giovane e acuto Marco Goldin. "Nella mostra del 1985 alla Compagnia del Disegno - ricorda Goldin - accanto ai ritratti, ai pesci, ai polli e conigli morti e a tutta quella congerie animale mai imbalsamata, comparivano alcuni quadri di fiori che restano, ancora oggi, tra le cose più belle e più vere dipinte da Vitali".
Come si può dissentire da quest'opinione? In effetti, nel suggestivo lunario minimo di Giancarlo Vitali la natura fa, decisamente, una gran bella figura.

 

 

 

 

[1] Testimonianza riportata a pag. 16 del testo di Marco Vallora “Siamo solo delle comparse” nel catalogo della mostra antologica di Giancarlo Vitali curata da Marco Goldin nel 1996 al palazzo Sarcinelli di Conegliano (Electa, Milano, 1996).

[2] Cfr. Vallora, ibidem.