Peter Greenaway | Mortality with Vitali: Father & Son, 04/07/2017

Peter Greenaway | Mortality with Vitali: Father & Son

04/07/2017

Peter Greenaway | Mortality with Vitali: Father & Son

Avevo già sentito il nome di Massimo Vitali e sapevo che era un fotografo italiano di spiagge. Avevo sentito dire anche che era nato a Como e che una volta aveva detto: “La vita è una spiaggia”. Alquanto enigmatico.
Non sapevo che il cognome Vitali fosse anche quello di un solitario e anziano pittore che viveva vicino al lago di Como, il cui nome era Giancarlo. Suo figlio Velasco mi scrisse qualche tempo fa una lettera dicendomi che suo padre stava per essere celebrato a Milano, dopo anni di silenzio, e che forse mi sarebbe piaciuto dare un’occhiata al suo lavoro. Velasco Vitali era rimasto colpito da una riflessione che avevo fatto durante l’introduzione alla proiezione di un mio recente film su Rembrandt. Avevo detto qualcosa riguardo la malinconia che mi procura il fatto che i pittori sembrino non parlare con i registi cinematografici e che i registi apparentemente non parlino con i pittori; in un certo senso si tratta di un dialogo mancato. Pittori e registi dovrebbero parlarsi nel vero senso della parola, avere un dialogo, numerosi dialoghi, scambiarsi i linguaggi. Dopotutto il loro mestiere è guardare e vedere ed entrambi potrebbero trarre profitto da questo scambio.

 

Certamente ne beneficerebbero i registi. Lo studio di (almeno) ottomila anni di pittura potrebbe rappresentare senz’altro un enorme vantaggio per gli scarsi centoventi anni del cinema. Era una riflessione che avevo fatto già molte volte. La comprensione del linguaggio visivo e il rapporto testo-immagine suscitano in me grande interesse e curiosità. Ma mi preoccupa un cinema i cui prodotti nascono sempre a partire da un testo, per quanto semplice o rudimentale. Ovunque nel mondo abbiamo un cinema creato da scrittori, fatto da abili cesellatori di parole, mentre un cinema di creatori di immagini è molto più raro. In fondo abbiamo visto centoventi anni di testo illustrato; e deve proprio essere il testo illustrato alla base del cinema? Ottomila anni di pittura, e solo centoventi di cinema (dal 1895 a oggi). Non dovrebbero questi ottomila anni come minimo contribuire a questi centoventi?

Io sono di parte. Mi sono formato come pittore e, fin dall’età di tredici anni, era questo che volevo diventare, anche se non avevo nessuna idea di come realizzare questa ambizione. Una volta un giornalista italiano mi chiese come mai, avendo iniziato la mia carriera come pittore, fossi diventato poi regista. Risposi che ero scontento del fatto che la pittura non prevedesse – di norma – una colonna sonora. Ci sono quadri di Rauschenberg in cui sono state inserite radio a transistor, sebbene per la maggior parte fossero rotte o spente; quindi non credibili. E John Cage fa molte riflessioni illuminanti su ipotetici quadri con colonne sonore. Forse questo è ciò a cui ancora oggi aspiro – ovvero quadri con colonne sonore. I dipinti non devono necessariamente essere animati, e di certo non devono raccontare per forza delle storie.

Gli elementi che rendono interessante un progetto sono in genere di varia natura. Ero attratto dai pittori solitari e segretamente invidiavo questo ideale. Inoltre, una volta mi era stato detto che ero stato concepito sul lago di Como, ma non so se fosse una metafora o la realtà. Mi piacciono le parole di Gandhi: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti attaccano. Poi vinci”. Giancarlo Vitali stranamente aveva vinto. Forse si potrebbe obiettare che lui non desiderasse vincere. Dopotutto, era stato per scelta un pittore solitario e adesso stava per avere un’esposizione celebrativa a Milano. A queste cose – pittore solitario, lago di Como, citazione di Gandhi – se ne aggiungevano altre, molte altre, come gli stimoli della

museologia, l’omaggio di un figlio pittore verso il padre pittore, in generale le idee sulla celebrazione dell’arte, la frase attribuita a Picasso, “la peggior cosa che tu possa fare a un quadro è appenderlo su una parete dove nel giro di un giorno sarà dimenticato”. Tutto alquanto enigmatico.

Andai a vedere i quadri di Giancarlo Vitali nello studio di suo figlio a Milano, con Velasco che faceva commenti, osservazioni e considerazioni. Mi parlò di suo padre con affetto, sorridendo. Disse che i suoi dipinti erano figurativi e “fuori moda”. Sembravano indifferenti agli stili della pittura contemporanea, ai loro tropi, ossessioni, fascinazioni, dogmi, sensibilità. Fui colpito dal fatto che Giancarlo Vitali non sembrasse interessato alla propria celebrazione e nutrisse

poco interesse per l’esposizione milanese dei suoi lavori. Era proprio così? Scoprii che aveva praticamente smesso di dipingere, che non voleva più ricominciare, che aveva più di ottant’anni e che viveva ancora sulle rive del lago di Como. Sono sempre stato incuriosito dagli artisti che, si dice, hanno rinunciato a tutto ciò che li aveva profondamente appagati per tutta la loro vita e che, dopo l’insolita decisione di smettere, hanno continuato a vivere molti anni senza più praticare la propria arte – direi che Velázquez, Shakespeare e Duchamp appartengono a questa categoria.

I quadri di Giancarlo mi colpirono. Erano tetri, melanconici, claustrofobici, tristi, dolenti. Inoltre erano dipinti in modo veloce e vivace, l’artista padroneggiava la pittura con talento e naturalezza. Mi piacevano i colpi di pennello e la pittoricità, il gocciolamento e gli schizzi, i graffi e le macchie. La vischiosità della pittura. Mi ricordava molto i pittori figurativi della mia formazione artistica alla fine degli anni cinquanta – pittori della Slade School of Fine Art di Londra, come Bomberg, Auerbach e Kossoff, che a loro volta si erano formati nell’epoca dell’impressionismo inglese sull’esempio di giganti come Sickert, Tonks e Augustus John, artisti la cui fama ha raramente oltrepassato i confini dell’Inghilterra. Il loro erede naturale sarebbe stato Lucian Freud.

I quadri di Giancarlo erano anche umili. Rappresentavano soggetti umili: attrezzi da artigiani – oggetti di uso quotidiano, non tenuti per bellezza –, pesci in una padella, tovaglioli, funghi da cucinare, avanzi di frutti da non sprecare, scheletrici polli spellati pronti per essere gustati nel brodo della sera, vestiti dozzinali lavati e rilavati. C’erano poi quelle nonne schive, sedute in silenzio in un angolo della cucina. Quando i quadri citavano altri artisti, citavano i pittori degli umili, Rembrandt, de la Tour, Soutine. Erano anche affettuosamente critici, quietamente ironici, delicatamente satirici. Alcuni sfioravano la caricatura ma senza veleno. Mettevo insieme tutte le informazioni che mi giungevano e poi finalmente capii. Ero catturato.

Non ho mai pensato che un quadro venga dipinto per essere appeso in modo asettico su una parete bianca in stanze dove nessuno vive; cioè come i quadri sono generalmente esposti oggi nelle gallerie, sotto luci artificiali, deliberatamente fisse, insieme a brevi testi che dovrebbero identificarli. Voi a casa, se possedete dei quadri e amate la pittura, fate così? I vostri quadri non sono forse messi sopra la lavatrice, schiacciati contro la parete da una pila di vecchi giornali, parzialmente nascosti da una tenda tirata, illuminati da macchie di sole che mutano continuamente, accompagnati dal rumore della strada e dal cicaleccio che riempie la stanza e ravvivati dai profumi e dagli odori provenienti dalla cucina? La vostra casa è forse una galleria d’arte in cui mortificate i quadri fingendo o che non esistano o che siano lì per urlarvi contro? I viaggiatori inglesi del XVII secolo tornavano a casa dopo aver visitato l’Olanda sorpresi dal fatto che gli olandesi appendessero così tanti quadri alle loro pareti accanto agli specchi e alla mappe, ai vasi di tulipani, all’ombra di domestiche cariche di biancheria pulita e vicino ai piatti sporchi della cena sul tavolo della colazione. Mi sembrava che i contesti percepiti come di alta cultura non fossero in sintonia con i quadri di Giancarlo Vitali.

Cercammo a Milano un posto che potesse ospitare la mostra. Mi sentii demotivato e insoddisfatto finché non entrammo nella Casa del Manzoni. Una dimora con gli architravi delle porte consunte, una luce fioca, con una cupa carta da parati, i parquet logori, gli specchi opachi e un garbo silenzioso. La casa era stata nobilitata a solenne museo. Sentii che lì avremmo potuto fare qualcosa. Potevamo riportarla alle sue origini. Potevamo restituirle l’intimità domestica di un tempo e renderla almeno per un breve periodo una casa in sintonia con la pittura di Giancarlo Vitali. Potevamo pensare di trasformarla in un ambiente che dialogasse con i soggetti dei quadri. Dove i quadri non ti gridassero in faccia. Dove i quadri rispettassero la reticenza dell’artista, il suo desiderio di essere umile e solitario.

Sono molto sensibile al genius loci di un posto. Il contesto architettonico, quando si fa un film, ha un ruolo fondamentale nel sostenere la storia che lì si svolge. L’ambiente architettonico è composto da elementi fortuiti frutto del tempo, degli odori, dell’atmosfera e degli imprevisti dovuti dall’uso che ne è stato fatto e dal modo in cui i suoi abitanti lo hanno adattato alle loro esigenze. Un edificio, uno spazio vissuto, si arricchisce di particolari e materiali che gli architetti e i costruttori avrebbero disprezzato o persino giudicato degradanti e avvilenti. Una regia molto abile e raffinata può talvolta sperare di riprodurre questo stratificato genius loci, ma la realtà sorprende sempre ed è sempre piacevole per la sua natura del tutto casuale, per la sua individualità eccentrica, per la sua imprevista peculiarità. Ero curioso di vedere se, grazie ai quadri di Giancarlo Vitali e all’atmosfera che avevo in essi percepito, quella singolare identità potesse essere rievocata. Di conseguenza abbiamo scelto soggetti adatti agli spazi che ci sono stati concessi. E quindi, per omaggiare e rispettare la particolare sensibilità della pittura di Giancarlo Vitali, abbiamo selezionato alcune opere che si potrebbero definire di “storia naturale”, altre dedicate al calore domestico e familiare, e alcune che hanno come soggetto un semplice ospedale.

I quadri non appartengono a un altro mondo, sono di questo mondo. E dovremmo esserne contenti. Sono tutte testimonianze che ci aiutano a guardare e a vedere. E a vivere.